SEDUTO IN QUEL CAFFE’

SEDUTO IN QUEL CAFFE’ – fotocronache dell’era beat
a cura di Massimo Masini
RFM Edizioni, 127 pagine, 25 euro

Introduzione di Edmondo Berselli
Contributi di:

  • Giò Barbieri,
  • Franco Fini Storchi,
  • Francesco Guccini,
  • Maria Roberta Olivieri,
  • Carlo Savigni,
  • Franco Tedeschi,
  • Franco Vaccari

Il beat italiano seduto in quel caffè Libro fotografico sui luoghi modenesi dove negli anni 60 si è formato il costume giovanile

di Luca Baldazzi

Erano quattro amici al bar, e guarda come è andata a finire: hanno fatto un pezzetto di storia. Della musica, del costume, dei movimenti giovanili. E’ successo perché quegli amici (un po’ più di quattro, per la verità) si chiamavano Francesco Guccini, Bonvi, Maurizio Vandelli, Victor Sogliani, Dodo Veroli e Pier Farri, Augusto Daolio e Beppe Carletti e tanti altri ancora. Da ragazzi si ritrovavano tutti al Bar Grande Italia di Modena, in largo Garibaldi, di fianco al teatro Storchi. Per bere qualcosa, scambiarsi un libro di Steinbeck o Garcia Lorca, guardare il passaggio delle ragazze. Ma soprattutto per parlare di musica e formare nuove band («Un complesso», si diceva allora). Era Modena, all’inizio degli anni Sessanta, ma poteva sembrare un po’ la mitica Swinging London dei Beatles. E qui, tra i tavoli del Bar Grande Italia, nacque buona parte della storia del Beat italiano. Una storia ora ripercorsa per immagini da «Seduto in quel caffè», un bel volume appena pubblicato dalle Raccolte fotografiche modenesi Giuseppe Panini (www.rfmpanini.it). Curato da Massimo Masini, col contributo del Comune di Modena, il libro è una cronaca dell’era Beat attraverso decine di foto inedite di Carlo Savigni, Franco Vaccari e Oscar Goldoni. Savigni, anche lui modenese e anima della compagnia del bar, fu il fotografo ufficiale di Guccini, Equipe 84 e Nomadi dal 1964 al 1968. Ma nel libro ci sono i suoi scatti fatti per strada, alla stazione di Modena («Per Carpi-Suzaramantova si cambia»…), al bar, durante i primi concerti e festival nei teatrini parrocchiali. C’è un Guccini sì e no diciottenne che suona nei Gatti e imbraccia la chitarra Gibson acustica («Timidissimo», lo ricorda Savigni). C’è un Maurizio Vandelli che canta nei Giovani Leoni e sta per formare l’Equipe 84, e già se la tira un po’ da dandy, con camicia a fiori, giacchetta striminzita e pantaloni a tubo. C’è Franco Bonvicini in arte Bonvi, futuro geniaccio del fumetto e inventore delle Sturmtruppen, già ironico, beffardo e spiritato. Ci sono le prime ragazze Beat, minigonna e occhi truccati con la matita, che formano complessi dai nomi come Ambra Borelli e le Gatte. C’è insomma la vitalità di una generazione «alternativa» ma pre-sessantottina, che protestava contro il sistema e i padri ma non aveva ancora imboccato la via della politica: tutto questo fu il Beat italiano prima del ’68, del Vietnam, della nascita del movimento hippy. Come ricorda Franco Tedeschi, un altro dei «ragazzi del bar», erano soprattutto i comuni disinteressi a tenere insieme la compagnia del Grand’Italia: «Eravamo quasi tutti agnostici, pur appartenendo alle varie frange di quella borghesia che allora era preda di un raptus clericale, tranne un paio di deplorati casi, non praticavamo alcun tipo di sport, e non frequentavamo granchè le balere. In comune avevamo un certo atteggiamento da dandy e l’amore per la lettura: Steinbeck, Salinger, Camus, Kafka, Orwell, ma anche fumetti, fantascienza e un po’ di poesia». A questi giovani modenesi «anticonformisti» dedicò un’intera pagina la Gazzetta dell’Emilia dell’11 aprile 1960: e l’inchiesta era firmata Francesco Guccini. Lo stesso cantautore ricorda oggi la scintilla che fece incontrare molti dei ragazzi del bar Grande Italia: «Fu uno spettacolo studentesco ideato da Corrado Bacchelli. Si chiamava “Tutti contro tutti”, era una gara a squadre fra le scuole superiori modenesi che si sfidavano sul terreno della musica, del teatro e dei quiz culturali. Segno che c’era una diffusa voglia di fare, di comunicare ed esibirsi ma, più di tutto, di cambiare qualcosa in positivo». Anche Massimo Masini, il curatore di «Seduto in quel caffè», parte da quel varietà studentesco del 1960 per rivendicare l’originalità delle radici del Beat modenese e poi italiano: «Il movimento nacque in modo spontaneo. Non fu solo l’importazione di una moda, non guardavamo solo ai Beatles e a Carnaby Street. Il fatto è che in quel bar di Modena finirono per ritrovarsi insieme una serie di persone creative e speciali. Tutti volevano suonare, ma chi proprio non era capace si inventava un altro mestiere. Come Savigni, il primo fotografo del Beat, o Dodo Veroli, che si affermò come produttore dei Nomadi». Tante storie che si sono intrecciate in un periodo in cui, come scrive Edmondo Berselli nell’introduzione del volume, «la storia si soffermò in un bar». Oggi in largo Garibaldi, al posto del Grande Italia, c’è una pellicceria. Il bar chiuse i battenti alla fine del 1977: era nato un nuovo movimento studentesco, dall’Inghilterra arrivava il punk. Un’altra generazione. E altre inquietudini, altre ribellioni.

12 February 2003