Gibuti, un viaggio all’insegna dell’imprevisto

La narrazione di questo viaggio è frutto di appunti estemporanei presi durante un percorso fatto all’insegna dell’imprevisto, in un periodo storico in cui le contese territoriali e la guerra nei Paesi del Corno d’Africa, quali Etiopia, Eritrea, Gibuti, Yemen e Somalia, erano già presenti e tuttora irrisolte. A Sud di Gibuti era appena terminato, ma non del tutto risolto, il conflitto tra Etiopia e Somalia per il possesso dell’Ogaden, la regione in territorio etiope però abitata in prevalenza da somali. La giunta comunista del dittatore Menghistu era appoggiata da Unione Sovietica e Cuba, mentre il progetto della creazione di una Grande Somalia del presidente Siad Barre aveva l’appoggio degli Stati Uniti d’America. Il conflitto nell’Ogaden e la guerra civile in Etiopia s’inserivano nel contesto della “guerra fredda” e della lotta per l’indipendenza dell’Eritrea.

ll nostro giro in Africa via terra e con mezzi di fortuna, inizia il 5 gennaio 1979 dal Cairo e durerà undici mesi. Dopo aver perlustrato in lungo e in largo l’Egitto, il Sudan e lo Yemen del Nord, con l’amico Aldo Dugoni il 23 marzo faccio l’autostop per raggiungere l’aeroporto di Sana’a. Qui la gente è curiosa e sempre incline a dare un passaggio ai bianchi.

All’uscita dallo Yemen troviamo però l’ennesimo ostacolo da superare, una delle inattese complicazioni che caratterizzeranno l’intero percorso dall’inizio del viaggio. Al check-in ci informano che per salire sull’aereo occorre il visto d’uscita dal Paese, particolare a noi sconosciuto in quanto nessuno si è preoccupato di avvisarci a riguardo. Passiamo da un ufficio all’altro a chiedere comprensione, ma pare proprio che dobbiamo rimandare il volo di 3 giorni, fin quando due ufficiali dagli occhi bovini ci permettono di passare in cambio di 74 dollari, quando il visto all’immigrazione in città ne sarebbe costati 3. Contrattiamo con ostinazione e alla fine ci timbrano l’uscita dal Paese per 15 dollari a testa.

Nei 45 minuti di volo con Air Yemen godiamo della spettacolare veduta dello stretto di Bab el-Mandeb, largo venti chilometri, e del golfo di Aden in cui il Mar Rosso sfocia nell’Oceano Indiano, con le sette isole Brothers ben visibili sotto di noi.

Alle 17 atterriamo a Gibuti, ex Somalia francese, poi nominato Territorio degli Afar e degli Issa ed ora Stato di Gibuti, dove ci troviamo davanti ad un altro inspiegabile enigma. La polizia ci trattiene i passaporti perché privi di visto, quando tutte le agenzie di viaggio ci avevano assicurato che agli italiani non serviva. Alla fine ci concedono tre giorni di transito, sufficienti per noi a cambiare aria. Il fatto che la nazione e la sua capitale abbiano lo stesso nome diventa motivo di frequenti equivoci.

Non ci sono bus per la città, solo taxi e tutto qui è carissimo. Facciamo l’autostop e veniamo caricati da un francese che, preso atto del nostro budget, ci porta all’Hotel de France, accanto al cinema Odeon, in pieno centro. La titolare Amina è un’etiope d’origine greca che parla italiano e, per farci risparmiare, ci sistema in una camera singola aggiungendo un materasso extra con lenzuola sul pavimento.

I primi passi per ambientarci ci portano a place Menelik, la piazza centrale contornata da portici che mi ricordano Algeri, in puro stile coloniale francese. Ordinata, pulita, negozi ben forniti di cibi buoni ma cari come in Europa. Da nemmeno due anni questo conteso lembo di terra ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia, tuttavia, la tredicesima brigata della Legione Straniera dell’Armée française è rimasta dislocata a Gibuti e lo si nota bene dalle strade percorse da numerosi gruppi di giovanissimi legionari e mercenari bianchi. Rasati a zero, in libera uscita serale, spadroneggiano nei bar del centro. I pub e le discoteche sono frequentati esclusivamente da francesi poiché le consumazioni sono troppo care per i locali che comunque non amano questo genere di svago e tanto meno i francesi. Le prostitute, che ti palpano le tasche per vedere se hai dei soldi, sono posizionate solo davanti e dentro i bar, dove trattano i mercenari bianchi come “allocchi” per scroccare loro da bere. Mentre le giovani donne, per la maggior parte somale, che passeggiano indisturbate fino a notte fonda, sono prive di comportamenti collegabili alla prostituzione. Donne dai volti gradevoli, lo sguardo fiero e dai sorrisi smaglianti, come Sara, la simpatica somala di 23 anni, che ha un incedere lento ed elegante avvolta da un leggero jilbab, l’abito tradizionale.

La città, sorta su un istmo nel Golfo di Tagiura, è piccola ed abitata da gente tranquilla che ci mette in guardia dai borseggiatori. Ma a noi pare tutto sotto controllo. Sara e le amiche ci spiegano che la capitale è suddivisa in otto quartieri e quello più popolare è detto Karkade che significa ‘seconda strada’ e si trova a due passi.

Nonostante le raccomandazioni di non andare, poiché i bianchi non sono ben accetti, non resistiamo e lentamente ci addentriamo nel buio pesto di viuzze illuminate solo dalla fioca luce che, qua e là, filtra dalle finestre delle casette di terriccio e lamiera che formano una immensa baraccopoli. Solo le prostitute ci avvicinano per offrire i loro corpi a prezzi stracciati, in un contesto decisamente squallido e a rischio di malattie. Ci invitano a non restare a lungo essendo un quartiere povero abitato da molti ladruncoli per cui è facile trovarsi un coltello alla gola.

Sulla via del ritorno entriamo in un ristorante etiope pulito e vuoto, non pretenzioso come quelli visti nelle vie del centro. Ordiniamo due piatti di spaghetti al sugo di pomodoro per noi molto buoni e chiediamo il bis che Ismail, il loquace proprietario, ci offre “a titolo di amicizia”. Dice che qui nessuno ama i francesi ma se i legionari dovessero partire il giorno dopo l’esercito somalo e quello eritreo si massacrerebbero per avere Gibuti. Aggiunge che Gibuti è un importante centro di reclutamento francese. Se lui, noi o chiunque altro volesse diventare mercenario la prassi sarebbe semplice: “Alla caserma ti fanno compilare un foglio, poi per tre giorni prendono informazioni. Se ti accettano, vieni spedito a Parigi a fare addestramento militare e infine inviato a fare casino in altre nazioni africane per 8000 franchi al giorno… è il nuovo colonialismo”.

Ma il problema locale più grande per i militari pare sia tenere a bada gli Afar e gli Issa, le due etnie nemiche che si contendono il potere sul territorio di Gibuti: “Gli Afar sono etiopi della Dancalia mentre gli Issa sono d’origine somala”. E conclude: “Dieci giorni fa, a 30 km da qui, si sono scontrati con le armi. Gli Afar hanno avuto due morti ed ora incitano il loro popolo contro il presidente di etnia Issa sostenuto dai francesi. Gli Issa non sentono ragioni, vogliono il potere totale su tutto il Paese”.

È la prima volta in vita mia che in una zona così vasta del mondo trovo tanta gente che parla italiano, pur essendo sudanese, etiope, eritrea, yemenita, gibutiana e somala. Ma la piacevole scoperta consiste nel constatare che, nonostante il periodo buio del colonialismo, per gli italiani hanno tutti una gran simpatia che si avverte subito, mentre disprezzano sia inglesi che francesi. Effettivamente, prima di caricarci per un passaggio, i nativi spesso ci chiedono di quale Paese siamo, dichiarando esplicitamente che non caricano i francesi e gli inglesi. Secondo Ismail il motivo risiede nel carattere: “Gli italiani si sono integrati con le popolazioni locali creando un gran numero di famiglie miste. Ad Asmara su centomila abitanti più della metà erano italiani, che hanno prodotto lavoro e infrastrutture. Appena gli italiani se ne sono andati, gli inglesi hanno smantellato la ferrovia Massaua-Asmara per rimontarla in Kenya”.

Pur essendo etiope Ismail non approva la politica del suo Paese: “Purtroppo, grazie agli ingenti quantitativi di armi ricevute dall’Unione Sovietica per far fronte alla minaccia somala, l’Etiopia sta ora sferrando un decisivo attacco contro gli indipendentisti eritrei”. Infatti, solo due settimane prima, con Aldo eravamo alla sede del FLPE (Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo) nella città di Kassala, la retrovia del fronte al confine tra Sudan ed Eritrea, dove abbiamo respirato l’affanno del viavai di uomini e mezzi che si affrontano poco oltre la frontiera.

Il mattino dopo facciamo colazione al porto, tra sambuchi ormeggiati e relitti di vecchie navi affondate che affiorano dal mare come fantasmi. Il luogo più folk di Gibuti rimane comunque il Marché Central, avvolto da un concentrato di profumi e colori sgargianti, luogo di smercio dei freschi ramoscelli di khat, il leggero e diffuso alcaloide ad effetto anfetaminico, importato quotidianamente dallo Yemen e dall’Etiopia.

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