TIMOR-LESTE

Timor in lingua Bahasa Indonesia significa est, pertanto Est-Timor o anche Timor-Leste (in portoghese) sarebbe come dire Est-Est. Isola montuosa nell’estrema periferia orientale dell’arcipelago indonesiano, di fronte all’Australia, di questo lembo di terra solo la parte est è indipendente perché il resto appartiene all’Indonesia che, per oltre un ventennio, si è annessa l’intera isola con una lunga e brutale guerra di occupazione.

Le fonti ufficiali di informazione sono scarse, contraddittorie e non sempre rassicuranti. La stessa Unità di crisi della Farnesina lo descrive come un territorio pericoloso, da evitare se non strettamente necessario. Per certo sono informazioni raccolte nell’immediato dopoguerra, che vanno doverosamente aggiornate, essendo Timor-Leste oggi un paese decisamente tranquillo. Esiste un alto tasso di disoccupazione che impone comunque attenzione, la stessa che occorre spesso quando si viaggia nel mondo.

Il biglietto dell’Air Timor, compagnia di bandiera associata alla Silk Air, si acquista online o all’interno del Changi Airport di Singapore. Si vola su una delle aree più belle del Pianeta: la miriade di isole dell’arcipelago indonesiano viste dall’alto ipnotizza piacevolmente la mente e dispiace quasi di giungere, in 3 ore e mezzo di viaggio, a destinazione. Arrivare a Timor-Leste dalla sfavillante e poliedrica Singapore, dove tutto rasenta la perfezione, l’impatto visivo è enorme e da la percezione di cambiare continente. Si notano subito luci al neon rotte, fili elettrici che pendono, vetri opachi sudici, muri scrostati e le uniformi stinte dei doganieri. Il caseggiato dell’aeroporto di Dili, dedicato all’eroe nazionale Presidente Nicolau Lobato, riflette la dimensione obsoleta e malinconica dei paesi indigenti e, proprio per questo, ricchi di fascino. E’ la nazione più giovane del Pianeta, indipendente solo dal 2002, con una realtà ancora tutta da scoprire, fatta di colori accesi, energia vitale, grande umanità e tanti imprevisti. La sua superficie è pari a quella della Calabria, con circa 1.200.000 abitanti, di questi 240mila abitano nella capitale.

Qui ci si arriva solo da Singapore, Bali o Darwin. Nel terminal ci sono un paio di uffici bancari e Timor-Leste non ha ancora una propria moneta. La valuta ufficiale è il dollaro americano, stabilito dalle Nazioni Unite per sostituire la rupia indonesiana. Le banconote sono in US$, mentre i centavos in metallo sono di conio portoghese e sostituiscono i cent americani: 100 centavos equivalgono a 1 dollaro USA. Questo è probabilmente il motivo per il quale, pur essendo Timor-Leste il terzo paese più povero del continente asiatico, dopo Pakistan ed Afghanistan, paradossalmente hotel e ristoranti sono cari se paragonati allo standard di vita locale o alla stessa Indonesia.

Condivido il taxi, addobbato in stile haitiano, con una coppia di giovani tedeschi, anch’essi convinti di essere atterrati in un paese carico di insidie e di pericoli. Pure qui si guida a sinistra, in pratica dal Pakistan fino ai confini con l’Australia tutti i paesi seguono il modello inglese. Alloggio nella zona di Moteal, alla guesthouse “Da Terra” di Carlos Vilar, professore universitario che qui ha creato un vivace centro culturale ed una comunità di amici straordinaria, di tipo famigliare. A Lucia, la ragazza tuttofare, chiedo se ci sono pericoli e da allora e per tutta la mia permanenza per lei diventerò beffardamente Mr. Dangerous. Daniel, il ricercatore brasiliano che vive qui da ormai due anni non ha mai sentito parlare di ruberie o altre violenze, tant’è vero che i ragazzi lasciano regolarmente sui tavoli esterni cellulari, computer, occhiali da sole e altri oggetti che nessuno ha mai osato toccare. Il vero pericolo sono la malaria e la dengue.

Le lingue ufficiali sono il Tetun, parlato o compreso dalla maggior parte della popolazione e il portoghese, utilizzato negli ambiti finanziario-istituzionali e dalle classi sociali più  scolarizzate. In buona parte è compreso anche l’indonesiano, essendo stata la lingua ufficiale durante l’occupazione. L’inglese non è molto usato, ma alla guesthouse di Carlos lo parlano tutti molto bene.

Dili non è dotata di un ufficio turistico e, per orientarmi, mi procuro la piantina della città ricavata da un depliant pubblicitario, l’unica mappa reperibile a Timor-Leste. Purtroppo, molti riferimenti storici e culturali sono stati distrutti dalle milizie indonesiane che, prima di abbandonare il paese nel 1999, hanno messo a ferro e fuoco l’intera nazione. Sarà Carlos & Co. a darmi, di giorno in giorno, la direzione sulle priorità da vedere. Tutto ha inizio con l’arrivo dei portoghesi nel 1512 alla ricerca del legno di sandalo e qui restarono per oltre quattro secoli. Questo è un paese giovane in tutti i sensi: la capitale Dili ha cominciato a fruire dell’energia elettrica nel 1960, mentre le reti dell’acqua, quelle fognarie, nonché le scuole e gli ospedali in cemento, sono stati realizzati negli anni Settanta.

Per prendere confidenza con la città, dal parchetto del Jardim 5 de Mayo, situato tra il lussuoso Hotel Timor e l’ingresso del porto, seguo la piacevole promenade del lungomare, che costeggia la baia di Dili. La parte centrale della passeggiata, ornata da rovi di fiori e grandi alberi tropicali dai nomi esotici, è dominata dall’esteso edificio color bianco-latte del Palazzo del Governo, centro amministrativo di Timor-Leste costruito in epoca coloniale portoghese. Il primo impatto, dal punto di vista del malai (straniero), è decisamente gradevole: tutti salutano con radiosi sorrisi, anche da auto e camion. Ragazze dai modi graziosi chiedono un selfie insieme da mettere su facebook – make me feel like a movie-star – e appena punto la macchina fotografica subito si mettono in posa e ringraziano. Chiedo un paio di informazioni e di colpo, con spontanea semplicità, mi fanno sentire come un loro amico. Si respira l’esaltante atmosfera tipica delle terre di frontiera.

Nella parte ovest della baia chiamata Lecidere, alle spalle del parchetto con la statua della madonna di Fatima, visito il convento delle suore Canossiane, diretto dalla solare madre superiora che parla italiano e subito organizza una foto di gruppo. Timor-Leste e le Filippine sono gli unici paesi Cattolici di tutta l’Asia e questo convento rappresenta un importante presidio italiano nell’isola, in quanto la nostra rappresentanza ufficiale nella regione è costituita dall’Ambasciata a Jakarta (0062-21319 37445).

I microlet (minibus, in prevalenza Suzuki) sono mezzi di trasporto pubblico funzionali e piacevoli, oltre che economici. Ogni linea è facilmente identificabile attraverso un colore e costa 25 cent, a prescindere dalla destinazione, sia vicina che lontana. I mezzi sono tappezzati esternamente da disegni vivaci, coi vetri spesso coperti da adesivi che ne limitano la visibilità, mentre all’interno abbondano ciondoli, finti telefoni, foto, specchietti e pupazzi vari, con preferenza per i bruchi in stoffa e musica spesso ad alto volume e di genere caraibico, da far dubitare di essere in Asia. Coi taxisti invece si contratta sempre: uno, due, massimo tre dollari e si va dovunque in città. A Lecidere salgo sul microlet blu numero 12 che segue la litoranea verso est e termina ai piedi della collina di Cristo Rei, ad una decina di chilometri da Dili. Un gruppo di giovani, capitanati da Miranda Soares, sale con me i 600 scalini di Capo Fatucama solo per il semplice piacere di godere della reciproca compagnia. Cordiali, sorridenti e mai invadenti, come lo sono in genere gli orientali. Sulla cima, al centro di una grande piattaforma la gigantesca statua di Cristo Rei svetta in piedi sul mondo e da qui domina l’intera baia di Dili. Costruita dagli indonesiani nel 1996 e rivolta verso Jakarta, viene descritta come una imitazione del Cristo Redentore di Rio de Janeiro e con i suoi 27 metri d’altezza pare sia uno dei più grandi Cristo Rei del mondo. Supportato da due belle spiagge sui versanti opposti del promontorio, sicuramente oggi è l’attrazione più popolare di Dili. La spiaggia che preferisco, alle spalle della statua, è più selvaggia e semi deserta.

Decido di tornare a Dili a piedi, per meglio gustare ogni metro di questo tratto di costa. Già dai primi passi le foto di gruppo o in coppia si moltiplicano, perlopiù richieste da ragazze ma anche da ragazzi. Mi incuriosiscono un paio di interviste fatte da gruppi di universitari per sapere cosa ne penso del loro paese, un’indagine finalizzata a dare alle nuove generazioni strumenti per aprirsi al mondo e lasciarsi alle spalle gli anni bui dell’infanzia.

 

La baia successiva alla spiaggia di Cristo Rei si chiama Areia Branca, sabbia fine e deserta nei giorni feriali. Con le sue acque limpide e basse mi appare come il posto più piacevole e protetto per fare il bagno. Mi fermo per una breve nuotata nel tratto di mare davanti al Beachside Hotel, gestito da una coppia di australiani che hanno deciso di investire qui il loro futuro. Questa è una nazione giovane, priva di servizi e attrezzature moderne, in cui si respira però una nuova energia capace di immaginare un futuro, tipica dei paesi appena usciti da guerre lunghe ed estenuanti. Siamo agli albori di una nuova epoca, col turismo in rapida espansione, pare infatti che investitori cinesi e tailandesi stiano arrivando in massa in virtù di una moderna colonizzazione. Un altro paradiso che da naturale potrebbe diventare artificiale. Mi considero fortunato ad essere a Timor-Leste in questo periodo storico di transizione, a sandwich tra un passato tormentato da tragedie ed un benessere sociale strisciante che getta un’ombra sul futuro.

A parte i venditori di cocco, di pesce fresco e i ristoranti sul mare, incontrati in questa piacevole camminata fatta sotto un sole cocente, mi ha colpito la lapide in cemento a bordo mare, di un certo Romero morto in un incidente stradale nel 2010, con mozziconi di sigarette accese in sua memoria e lasciate bruciare da amici, parenti e passanti tutt’attorno alla lapide. Questo mi riporta la mente ad un rito analogo visto nella vicina Australia dove, al posto delle sigarette, tutt’attorno la lapide posta sul ciglio della strada c’erano lattine e bottiglie vuote di birra. In entrambi i casi, sia i mozziconi di sigarette che i contenitori d’alcool appaiono come simboli dei piaceri della vita lasciati a ricordo di chi non c’è più, al confine fra la vita e la morte. Poco più avanti, resto colpito anche dalle anziane signore che dividono per misura, colore e forma una sterminata distesa di pietruzze e sassi corallini da riempirne tanti sacchi di carta. Non ho chiesto nulla, ma la presenza di croci mi suggerisce che siano utilizzati nei cimiteri sulle tombe. Poco dopo, faccio un’altra curiosa scoperta che non avrei fatto se fossi tornato in microlet: vedo un cancello aperto su una proprietà apparentemente disabitata, incuriosito entro per dare un occhiata e, tra le erbacce, vedo cinque antichi cannoni portoghesi accatastati al suolo tra i rifiuti, in un angolo del cortile. Un reperto storico di gran valore che qui però non ha mercato, considerato un peso superfluo.

 

A Dili gli edifici coloniali più importanti, rimasti in piedi dopo la guerra, si trovano all’inizio di Rua 30 de Agosto, sul lato est del palazzo del governo, come l’Ambasciata del Portogallo e la Casa Europa di fronte, costruita nel 1627 e chiamata così perché ospitava gli uffici delle delegazioni europee durante la guerra civile. Assolutamente da non perdere la visita al Museo della Resistenza, in Rua Formosa accanto all’università, un must per contestualizzare lo spirito della nazione, dove incontro il portoghese Joao Crisòstomo, appassionato di storia timorese. Dopo avermi mostrato una caterva di curiosi articoli e fotografie di quando era maggiordomo di Jacqueline Kennedy ai tempi di Onassis, mi conduce nell’ufficio di Hamar Alves, solerte e gentile direttore di questa straordinaria galleria storica. Insieme facciamo il giro delle sale che raccontano in modo cronologico, anno per anno, le tappe salienti del conflitto e del movimento di liberazione Fretilin (Frente Revolucionària do Timor-Leste Independente), creato nel 1974 allo scopo di ottenere l’indipendenza dal Portogallo. Solo in seguito passò alla lotta armata contro il regime di Suharto e l’occupazione indonesiana. Molti dei fondatori provenivano dalla casta dei Liurai, l’antica nobiltà della Timor precoloniale, colti ed abili nel governare. L’anno seguente, fomentata dai servizi segreti indonesiani (Bakin), la contesa tra partiti pro e contro Indonesia sfociò in una guerra civile che lasciò circa duemila morti per le strade di Dili. Il Fretilin ebbe la meglio ed il 28 novembre 1975 proclamò la nascita della Repubblica Democratica di Timor Est, con il fondatore del movimento Francisco Xavier do Amaral, detto anche “Abo (nonno) Xavier”, come primo Presidente. Nove giorni dopo, il 7 dicembre 1975, le truppe indonesiane entravano a Dili nonostante il rifiuto dell’Onu e cominciarono subito a compiere stragi senza precedenti sull’isola. Memorabile l’ultimo disperato appello di Radio Dili al mondo: “Ci uccideranno tutti. Ripetiamo, ci uccideranno tutti. Vi scongiuriamo fate qualcosa per fermare l’invasione”. La paura di una Timor-Leste marxista fu vista come il pretesto al sostegno dei governi statunitense e australiano all’invasione indonesiana, mentre la vera ragione pare sia nella disputa di acque territoriali ricche di petrolio. Si resero così “corresponsabili” di una politica del terrore che causò stragi in tutto il paese, migliaia di morti e centinaia di paesi e villaggi distrutti dai bombardamenti al napalm. Tristemente noto il massacro al cimitero di Santa Cruz, avvenuto il 12 novembre 1991, con oltre duecento manifestanti inermi uccisi sul posto. Tuttavia, la visita di Papa Giovanni Paolo II nel 1989, l’assegnazione del premio Nobel per la Pace ai vescovi Carlos Ximenes Belo e José Horta nel 1996 e l’anno successivo la visita del presidente sudafricano Nelson Mandela al leader del Fretilin, Xanana Gusmao, quando era in carcere, sono tutti atti che hanno portato ad un aumento della pressione internazionale per l’indipendenza. Nonostante le minacce di morte delle milizie addestrate dall’Indonesia, il 98% della popolazione di Timor si presentò alle urne per votare sul referendum che ne sancì l’indipendenza. Era il 30 agosto 1999. Gli squadroni della morte delle milizie indonesiane scatenarono una nuova e feroce ondata di violenza inarrestabile, uccidendo per strada tutti quelli sospettati di avere votato a favore dell’indipendenza, senza risparmiare nessuno, a cominciare da sacerdoti, suore e persone delle varie organizzazioni umanitarie. Un genocidio con centinaia e centinaia di morti e decine di migliaia di persone fatte salire su automezzi militari e scomparse nel nulla. Quando il 22 settembre le truppe australiane inviate dall’Onu entrarono a Dili trovarono un paese distrutto, completamente devastato. Alle forze Interfet (International Force for East Timor), senza le quali ben difficilmente l’Indonesia avrebbe accettato la missione di pace, partecipò egregiamente anche l’Italia. Xanana Gusmao venne così liberato e il 20 maggio del 2002 diventa presidente di uno stato sovrano, finalmente completamente indipendente. Con la nascita della nazione, da movimento indipendentista il Fretilin si è trasformato in partito politico. Ciò nonostante la ferita è ancora fresca, lo si capisce bene parlando con la gente: il paese è ancora molto legato alla parola “guerra” … e al contempo sono costretti a fare buon viso a cattiva sorte poiché, a causa della posizione geografica, gran parte dei loro commerci e tant’altro dipendono dall’Indonesia. Resta comunque difficile dimenticare un olocausto di oltre 200 mila morti, quasi un quinto dell’intera popolazione.

 

Proseguo nel mio itinerario da turismo “dark”, consigliato però da tutti, recandomi nel quartiere di Balide per visitare l’ex carcere di Comarca, che risale al periodo coloniale ed era usato dagli indonesiani per torturare i prigionieri timoresi favorevoli all’indipendenza. Nel cortile oltre la cancellata d’ingresso trovo una piccola grotta ben curata tra il verde, con la statua della Madonna in stile Lourdes e la scritta “In memoria dei prigionieri politici”. Negli spazi all’interno dell’edificio, una lunga serie di pannelli descrive in successione cronologica, come al Museo della Resistenza, le drammatiche vicende dell’occupazione indonesiana, dal 1975 al 1999, in rapporto alla prigionia ed alle sevizie. Terribilmente drammatica la vista della sedia in ferro delle torture, dell’elenco dei reclusi e delle otto famigerate “celle scure”, prive di finestre, lasciate nel loro stato originale. In particolare quella con scritto sul muro: “10/8/1976 – Nesta ‘cela da morte’ estiveram Octavio Jordàu de Araujo, Justino Mota, Julio Alfako”, circondata da altri graffiti analoghi. Il giovane Mota era un noto attivista del partito Fretilin. Sulla via del ritorno resto colpito pure dalla quantità di fedeli intenti ad assistere alla messa dentro e fuori la Cattedrale Morael, di fronte al massiccio monumento dedicato ai caduti nel cimitero di Santa Cruz.

Cambio decisamene atmosfera alla festa per la “giornata nazionale del Portogallo” che ha luogo al Timor Plaza, l’unico centro commerciale moderno di Dili. Si svolge al quinto piano, nella terrazza all’aperto dello Sky Bar, con musica dal vivo ed una marea di impiegati occidentali, perlopiù portoghesi, che bevono, mangiano e ballano fin oltre mezzanotte. Il nostro drappello, Carlos e tutta la compagnia di lavoranti e clienti della guesthouse, conta una decina di persone già legate da un sano spirito di corpo.

Tra un sorso e l’altro, una signora timorese residente in Australia non smette di imprecare contro il servizio sanitario locale, sostenuto da giovani medici cubani privi di mezzi e d’esperienza: “Mio padre è morto per una semplice infezione che in Australia avrebbero curato senza problemi”. Carlos rincara la dose, sostenendo che all’ospedale ti danno la stessa medicina per ogni cosa, sia che tu abbia un infarto o che ti rompa una gamba. Ovviamente chi se lo può permettere, vola a Darwin o a Singapore.

 

Il giorno seguente supero il Timor Plaza verso l’aeroporto e subito dopo il Comoro Bridge, sulla destra trovo il singolare ingresso al villaggio Arte Moris (Vivere l’Arte in lingua tetun), la prima scuola e associazione artistica e centro culturale di Timor-Leste fondata a seguito della violenta occupazione indonesiana. Il suo obiettivo primario era quello di utilizzare l’arte come elemento di ricostruzione psicologica e sociale di un paese devastato dalla guerra, con particolare attenzione ai giovani. Nel vasto complesso sculture ed opere d’arte sono disseminate dovunque, nel giardino e nelle gallerie, in cui prevale lo stile surrealista ispirato ad una filosofia rivoluzionaria e pacifista che spazia dal genere rasta di Bob Marley a Che Guevara e Gandhi, con l’epigrafe: “Nessun Dio è più in alto della verità” e “One Love” o “Make art not war”. Il suo rappresentante più celebre è Tony Amaral, diplomato alla prestigiosa National Art School di Sidney. Molti studenti abitano qui, sperimentano e si allenano con materiali, mezzi e strumenti diversi nelle varie espressioni artistiche, compreso la musica funky. In una stanza sta provando il gruppo denominato Kalar, con la voce di Otopsy e l’amico Ongky al basso. Notevole e stimolante il senso di libera creatività che sprigiona questo luogo.

 

Carlos e Co. decidono che per me è arrivato il momento della visita ai mercati. A pochi passi dalla guesthouse c’è il più noto di tutti, il Tais Market, che si traduce in un modesto ma ordinato spazio dedicato a casette in legno e lamiera ricolme di manufatti d’artigianato locale di buona qualità. In primis il coloratissimo panno tais, un metodo di tessitura tradizionale creato dalle donne di Timor-Leste e considerato patrimonio della cultura nazionale. Viene usato come ornamento cerimoniale, in segno di rispetto verso gli ospiti, ma anche come abbigliamento di tutti i giorni. Oltre a tessuti, borse, zainetti e souvenir vari, qui si trovano anche preziosi legni indigeni scolpiti, originali disegni di collane, braccialetti e gioielleria in metallo proveniente delle diverse province del paese. L’impostazione di questo mercato è rivolta ad una clientela di turisti, apprezzo il fatto che nessuno assilla o insiste per vendere e non alzano i prezzi. Per vedere un mercato decisamente meno formale, con un paio di microlet raggiungo l’animato e pittoresco Mercado Taibesi, nella periferia sud orientale di Dili. Frutta, verdura e spezie di ogni tipo, forma e colore, comprese le corroboranti noci di betel, quelle che corrodono i denti e lasciano la bocca color vermiglio. Mi perdo ad esplorare le stradine del quartiere attorno al mercato abitato da kaim pribumi, indigeni dell’entroterra, intenti nel loro variegato scandire del tempo, trainando carretti con maialini in gabbia, vendendo galli da combattimento (prezzi da 10 a 50 dollari) o cuccioli di cani, mentre i più giovani si sfidano giocando al pallone o a stecca su polverosi biliardi all’aperto.

A sera, con Carlos e il team di amici della guesthouse al completo, ci rechiamo al mercato notturno del pesce di Pantai Kelapa, sull’argine del Rio Comoro in secca. Alle spalle di una bancarella, con poca spesa ci facciamo una scorpacciata di spiedini di polipo alla griglia.

Dei miei 42 giorni di permanenza, uno l’ho perso in un modo che credo valga la pena raccontare per mettere in guardia altri viaggiatori. Scopro di possedere delle banconote in dollari americani che nessuno accetta, sia i negozianti che le banche, perché sopra hanno una data per loro inaffidabile. Questo mi obbliga a cambiare degli euro che però la stessa banca centrale non accetta. Mi indicano un’altra banca, dove convinco la guardia a farmi passare davanti ad una fila chilometrica che si estende anche sulla strada sotto a un sole cocente. Una volta alla cassa per 50 euro mi danno 20 dollari. Perplesso dico: “Scusi, c’è un errore, io le ho dato 50 euro e l’euro vale più del dollaro”. Nessun errore, nella ricevuta leggo un lungo elenco di trattenute e commissioni per un totale di US$ 35, pura follia .. cancello tutto e riprendo gli euro. Mi consigliano di fare il giro delle agenzie Western Union e finalmente, già nel pomeriggio, trovo quella che mi cambia 100 euro alla pari col dollaro, così ci rimetto solo 10 euro, senza ovviamente alcuna ricevuta.

 

Al ritorno, lungo Avenida Nicolau Lobato, mi trovo di fronte al noto Bar Tower, preferito dai portoghesi e indicato come unico luogo di celata prostituzione. E’ pomeriggio, il posto è deserto ma vedo una grande sala con tavoli e palco per musica dal vivo. Scatto alcune foto e subito si presenta la direttrice, Cidalia Rangel, la quale mi informa che il locale è chiuso per la morte del padre del titolare. Saputo che in qualità di reporter vorrei conoscere meglio la vita notturna di Dili, mi fa accomodare nel suo ufficio e gentilmente mi racconta i locali della città:

Esplanada, al giovedì live music fino all’una di notte. E’ anche un hotel, con bar sulla spiaggia frequentato da artisti e timoresi benestanti; Timor Plaza, al venerdì musica dal vivo allo Sky Bar del quinto piano; Queen Bar, al venerdì e sabato con musica da ballo, vicino all’ambasciata portoghese, ma lo sconsiglia agli stranieri perché quando i timoresi bevono si rischia la scazzottata; Casa da Musica al sabato, all’ultimo piano nel blocco del Burger King, night club-disco per ballare con dj; Club 88, genere pub con biliardo fino a notte fonda, dietro al supermercato portoghese Pateo. E io aggiungo il Moby’s Bar, sull’Avenida Marginal del lungomare, frequentato da australiani, con musica sparata a tutto volume e birra a fiumi. Mi auguro che la vicinanza con l’Australia non porti a degli eccessi come sta succedendo da tempo a Kuta Beach di Bali. Carlos conferma la lista ma tiene a precisare che il Tower non è chiuso per lutto ma per altre ragioni. E’ chiaro che non c’è una gran scelta di luoghi di svago poiché i timoresi non escono tanto la sera, sono ancora legati alla vita famigliare, oltre che condizionati dalle scarse risorse economiche. Non ci sono bar o osteria che, come da noi, favoriscono la vita sociale. Infatti, all’imbrunire, molte coppiette si radunano sul muretto del lungomare per gustare il tramonto con la cornice di barche a vela ancorate in rada. Un’idilliaca visione che riporta ai film in bianco e nero degli anni Cinquanta.

Baucau

I bus per la città di Baucau, 123 km ad est da Dili, partono dal quartiere di Becora, nella periferia orientale di Dili. Quando arrivo, una marea di giovani esagitati e vocianti assalta il taxi ancora in movimento, i primi aprono d’impeto i quattro sportelli, anche quello del driver e tentano con forza di prendermi lo zainetto in custodia ma resisto. Appena esco mi strattonano, mi tirano braccia e camicia per spingermi ognuno verso il proprio autobus. Una lotta che, prima ancora, ha origine tra loro, con liti da cazzotti per aggiudicarsi il cliente. Lancio due urla, estraggo la macchina fotografica come fosse un revolver e sparo foto a raffica alle loro facce. Strano ma vero si quietano, fulminati dalla mia reazione. Con un guizzo salgo sul bus che ho scelto e per qualche secondo nessuno fiata. Poi ripartono alla carica ma ormai sono comodamente seduto che rido beffardo, ad osservare l’assalto ad altri passeggeri in arrivo.

Sono salito sul bus alle 8 ma fino alle 9.30 non prende il via, è la normale prassi d’attesa per cercare di caricare più clienti possibile. Al termine del polveroso percorso, tra costa e collina, alle 13.30 entro a Baucau Nuova. Baucau è la seconda città del paese con circa 20 mila abitanti ed è composta da due centri: Vila Nova (Kota Baru in indonesiano), voluta dagli indonesiani, con edifici governativi e la distesa di tetti in metallo ondulato del grande mercato in cui si smercia di tutto, da cuccioli di animali, giochi e abbigliamento a mobili, verdure e pesce essiccato; ad un paio di chilometri c’è Vila Antigua (o Kota Lama), il cui fascino è dato dal sorprendente Mercado Municipal, prima attrazione storica e turistica della città e da altri piacevoli edifici coloniali portoghesi. Cerco un alloggio basic a Vila Nova, giusto per un paio di notti, ma quelli che vedo sono penosi in rapporto al prezzo (US$ 40): camere buie, lenzuola sporche, tende alle porte, senza infissi, senza lavandini e neppure specchi. Salgo sul primo microlet che scende, curva dopo curva, alla città vecchia e alloggio alla TatoToti guesthouse (US$ 35), pulita e decorosa in ottima posizione, di fianco al celebre e incantevole hotel in stile coloniale Pousada. Vila Antigua poggia su di una rigogliosa collina a 330 metri d’altitudine, in posizione privilegiata. Pochi passi e sono davanti al muro del perimetro che circonda il Mercado Municipal, ma è tutto chiuso. Chiedo a più persone e finalmente arriva quella con la chiave che mi apre la cancellata, lasciandomi libero di girare per la struttura senza controlli. Lo storico edificio, dalla pianta arcuata a ferro di cavallo, ha due ali di portici che terminano con una torre su entrambi i lati. Inaugurato nel 1932 e progettato in Europa agli inizi del ‘900 per l‘allestimento di fiere e mostre agricole, scendo la scala maestosa che dal portale centrale mi conduce al giardino interno, da dove apprezzo la visone d’insieme dell’intero complesso. In origine era tutto bianco, mentre ora è di colore giallo e blu, coi tetti rosa. Distrutto e ristrutturato più volte, sia durante la seconda guerra mondiale che quella del 1999, dal 2014 è diventato un centro culturale. E’ interessante vedere come un grande e piacevole edificio portoghese sia stato custodito dai timoresi. Accanto c’è la parrocchia, sede vescovile di Sant’Antonio, diocesi di Baucau dipendente dalla Santa Sede di Roma. E’ un importante centro di aggregazione d’epoca coloniale, con un ampio pergolato nel cortile d’ingresso costruito in stile Fataluku, la tipica architettura della tradizione locale. Alle sue spalle, il muretto sul lato sinistro del complesso religioso si affaccia sul pendio dalla parte del mare, distante appena una manciata di chilometri, con la brezza che dona il clima più fresco della costa. Oggi è festa grande, la giornata del “Glorioso Santo Antònio” guidata dal vescovo Basìlio do Nascimento in persona. Resto rapito dalla funzione religiosa, molto sentita dai fedeli presenti e dalle centinaia di bambini, attenti e composti nelle uniformi bianche e verdi della comunità.

Dalla rotatoria di fronte alla guesthouse scendo in taxi i 5 km che mi portano a Pantai Wataboo, la bella spiaggia di Osolata ornata da palme da cocco. Di quello che era il porto di Baucau è rimasto solo l’edificio della dogana portoghese abbandonato, mentre per alloggiare merita la sosta il valido Baucau Beachhouse & Bungalow (US$ 15-20), davanti ad un scorcio di paradiso, nei pressi del pittoresco ammasso di roccia affiorante a pochi metri dalla riva.

Da Osolata, continuando verso est, la strada porta a Lospalos ed ai famigerati ultimi 7 km di Tutuala, jumping point per la superba Jaco Island. Preferisco tornare a Dili e visitare altre località, in primis l’isola di Atauro e forse, se ne ho il tempo, l’enclave di Oecussi. Alla bus station di Baucau Vila Nova, nell’attesa della partenza, trascorro il tempo a fotografare il carosello perpetuo di autobus Mitsubishi dipinti con fantasiosi immagini dai colori splendenti, che riflettono la cultura e il carattere della gente.

 

Tornato a Dili, vado al terminal di Tasi Tolu, sulla strada dell’aeroporto, e salgo al volo sul microlet per Liquica, cittadina costiera 33 km ad ovest di Dili. Credevo prendesse il via subito e invece, anche in questo caso, il driver gira e rigira alla ricerca di passeggeri e si parte solo un’ora dopo. Se uno ha fretta è certamente più saggio usare il taxi. Col microlet, seguiamo  la litoranea verso ovest, ma giunti all’altezza delle vecchie prigioni di Aipelo anziché proseguire, il driver gira il mezzo verso i monti e sale per chilometri su per una ripida stradina piena di buche e sassi, per condurre alcuni passeggeri fino a casa. Torna sulla litoranea ma dopo poco ripete il servizio per altra gente. Nessuno si lamenta, nessuno fiata, anzi ridono divertiti ad ogni sobbalzo del mezzo, è normale. Qui regnano i tempi lunghi e non c’è da stupirsi se per fare pochi chilometri ci si può impiegare anche mezza giornata, tuttavia questa consegna a domicilio mi ha toccato, per il rispetto delle relazioni umane ancora semplici ma piene di significato. Un occasione per vedere alberi enormi, giardini che custodiscono le tombe di famiglia e un esercito di bambini che va a scuola in uniforme.

Anche Liquica, come Dili ed altri luoghi, è stata distrutta dalle milizie filo indonesiane che nel 1999, in seguito alla campagna di intimidazione che ha preceduto il referendum per l’indipendenza, uccisero duecento persone nel massacro alla chiesa di Liquica, molti dei quali vecchi e bambini. Durante quel periodo la maggior parte degli edifici della città furono distrutti, quindi in tal senso c’è poco a vedere: un mercato all’inizio del paese, qualche edificio portoghese ed una spiaggia con arena scura. Fu anche capitale, dal 1520 al 1769, quando fu spostata a Dili.

La strada è asfaltata e panoramica, decido di continuare verso ovest per altri 16 km fino a Maubara, località con un ampia spiaggia di sabbia cinerina ma fine, famosa per il suo Forte olandese costruito attorno al 1756. Due cannoni sono puntati verso il mare dagli angoli del fortilizio e nel perimetro interno, all’ombra di grandi alberi, c’è la casetta del ristorante Tia Janer, dove si mangia molto bene per 4 dollari.

Molti pensano che il forte sia portoghese ma non lo è. Anche se i portoghesi occuparono per primi l’isola nel 1520, nel 1640 la compagnia olandese delle indie orientali si stabilì sulle coste occidentali sospingendo i portoghesi verso la parte orientale di Timor. Per riavere possesso di questa regione e dell’isola di Atauro, il Portogallo cedette all’Olanda l’isola di Flores che prima le apparteneva. Il confine tra est e ovest Timor fu stabilito con un trattato tra i due paesi firmato nel 1859 e modificato nel 1893.

Di fronte al forte, occupano il lungomare un paio di ordinati negozi con souvenir ed un lindo bar con poltrone a bordo spiaggia. Poca gente, atmosfera tranquilla, di massima distensione, ad eccezione di un gruppo di giovani australiani chiassosi che si buttano in mare prima di tornare al lavoro.

Per il ritorno a Dili non ci sono molti mezzi pubblici. Passa un microlet e mi invitano a salire davanti col driver, ma prima di prendere la via della capitale i due mi portano con loro nell’entroterra, guadiamo un fiume e giriamo per i monti a caricare e scaricare sacchi di merci per tornare un ora dopo al punto di partenza. C’è poco traffico e mica vogliono perdere i 5 dollari del biglietto. Giunti a Dili, al momento di pagare, un anziano signore si affaccia al finestrino e dice al driver, con tono dimesso e dolente: “Mi spiace ma non ho soldi, fatteli dare da lui”, indicando me che gli stavo accanto .. Come dire “i bianchi hanno soldi non io”. Il driver fa una smorfia e rassegnato riparte.

In assenza di cinema, alla guesthouse un paio di volte la settimana Carlos stende un lenzuolo sulla parete in veranda, chiama un po’ di gente di tutte le nazionalità e proietta un film. Spesso con temi che trattano le drammatiche vicende della guerra con l’Indonesia, come “A Guerra da Beatriz” del 2013, primo film prodotto in Timor-Leste, co-diretto dai registi Bety Reis e l’italiano Luigi Acquisto. A fine proiezione, si discute anche della disputa sui confini delle acque territoriali tra Timor-Leste e l’Australia, per la supremazia del vasto giacimento di idrocarburi, dove si stima vi siano risorse per 100 miliardi di dollari. Parlando dei luoghi che vale la pena vedere, il russo Pavel afferma che Atauro è come le Maldive. Io sono stato alle Maldive e subito “addrizzo le orecchie”. Guardo le foto ma non vedo né sabbie immacolate né palme da cocco, elementi che evocano le Maldive. E’ risaputo che Atauro è la meta d’obbligo per chi viene a Dili, ma in genere si citano soprattutto le meraviglie dei suoi fondali. Non resisto e vado a vedere. Tutti concordano che 3-4 giorni sono sufficienti ad entrare nel merito. Fernando, il socio di Carlos, telefona alla sua amica Madalena e prenota per me un bungalow al Manukoko Rek a Vila Maumeta di Atauro.

Atauro

All’isola di Atauro, 30 km a nord di Dili, ci si arriva in diversi modi, tutti con modalità e prezzi diversi, che variano da 5 a 50 dollari a testa o 400 se si sceglie l’aereo della MAF (Mission Aviation Fellowship), da dividere tra i passeggeri. I più economici e lenti sono Laju Laju Ferry e Nakroma Ferry, quest’ultimo  fa regolare servizio anche con l’enclave di Oecussi, mentre i water taxi della Compass Charters sono i più costosi, ma sono anche gli unici che conducono nel versante ovest dell’isola. La guesthouse di Carlos è in una posizione felice, comoda a tutto. Pochi passi e prenoto all’agenzia marittima Dragon il passaggio sul “siluro” rosso e giallo denominato Star Fast Boat. Impiega soltanto un’ora ed offre tre classi, scelgo la economy a poppa per 10 dollari.

L’indomani alle 7 sono al porto, partenza alle 8 e arrivo nel capoluogo Beloi alle 10, con un’ora di ritardo causa mare mosso. A Beloi, villaggio con poche case sparse sulla costa est, c’è l’unico molo d’attracco dell’isola ed anche l’unico supermarket (toko) gestito, guarda caso, da cinesi: un cubo in lamiera ondulata. Sono colpito dal simpatico mezzo di trasporto pubblico in uso nell’isola: una moto con carro e sedili a panca chiamato curiosamente tuk tuk alla tailandese. In tutta l’isola ci sono solo 7 km di strada sterrata che collegano Beloi a Vila Maumeta più a sud, il costo è sempre di 2 dollari a persona qualsiasi sia la distanza. Il Manu-koko Rek (“gallo-canta rikò”), fondato dai padri missionari italiani Pierluigi e Francesco detto Sisco, è un complesso decisamente armonioso e gradevole, composto da curati bungalow, ristorante con cibi italiani, aule per le lezioni ed un gradevole giardino in fiore. Ottimo anche il prezzo in rapporto al servizio, soli 15 dollari con colazione compresa, il più a buon mercato dell’isola. Unico neo, la spiaggia è un po’ distante, ma soprattutto inesistente e piena di sassi. Con il mare appena un po’ mosso è difficile arrivare al reef che potrebbe alzare il punteggio della valutazione generale. L’idea delle Maldive si allontana sempre più e questo mi obbliga a cercare altri punti d’interesse. Il Manukoko Rek è anche la sede della cooperativa Boneca de Atauro, la celebre bambola di pezza creata da una intuizione dell’artista svizzera Ester Piera Zuercher Camponovo per dare lavoro, autonomia e dignità alle donne dell’isola, innescando così un processo rivoluzionario. I padri italiani sono solo sostenitori, supporter, mettendo a disposizione le strutture, mentre la giovane portoghese Madalena Sberrato è volontaria e mi guida al cosiddetto Boneca Tour, tra le sale piene di sartine intente a confezionare e cucire bambole, borse e quant’altro. Questa attività al momento dà lavoro a sessanta “socie” che si auto-stipendiano di 4 dollari al giorno, per sei giorni la settimana. Ciò garantisce maggiore indipendenza e rispetto della donna in seno alla famiglia poiché sull’isola, ma anche nel resto del paese, esiste un maschilismo molto marcato, difficile da estirpare. Essendo questo l’unico salario che entra in casa, l’uomo arriccia un po’ il naso nel dover accudire i figli, in quando ritenuto compito delle donne ma, per convenienza, è costretto ad adeguarsi all’autonomia della moglie. Inoltre, oltre a produrre e a commerciare originali lavori di ricamo e cucito, le socie qui hanno la possibilità di imparare a leggere e a scrivere. Vero miracolo sociale!

Vila Maumeta, oltre ad essere l’abitato più grande, ha una sua storia endemica che lo differenzia dal resto dell’isola. Innanzitutto questo villaggio è la roccaforte dei cattolici che qui giunsero soltanto negli anni Cinquanta. A differenza del resto del paese, quasi totalmente cattolico, più della metà degli ottomila abitanti di Atauro professa la religione protestante calvinista. Ciò è dovuto al fatto che l’isola fu colonizzata dagli olandesi già dal 1640, evangelizzata poi dai missionari dei Paesi Bassi provenienti dalle Mollucche e infine ceduta, in funzione di uno scambio, al Portogallo che ne prese possesso solo nel 1884. Malgrado questo l’animismo è ancora molto presente e praticato, in simbiosi con il credo Cristiano.

Inoltre, questo villaggio è famoso anche per le sue prigioni in epoca coloniale. I portoghesi usavano deportare qui dalle loro colonie in Africa ed Asia i criminali e i prigionieri politici; molti discendenti vivono ancora oggi a Vila Maumeta, integrati con la popolazione indigena.

Prima di coricarmi faccio presente a Madalena che non ho mai visto tante persone così minute come a Timor-Laste. Risponde che ci sono zone con persone più alte, di etnie diverse. Sottolinea che a Timor-Leste esistono 33 dialetti, ciò significa altrettante culture, modi di essere, di vivere e di vedere. A conferma della mia osservazione, ricorda di aver letto di viaggiatori francesi in barca a vela che negli anni Sessanta descrissero gli abitanti di Makili, nella punta meridionale dell’isola, come Pigmei.

Il generatore di corrente entra in funzione dopo il tramonto, dalle 18:30 alle 6 del mattino. Un appuntamento importante col bungalow, per caricare le batterie di cellulare e macchina fotografica ormai scariche a fine giornata. Clima perfetto, brezza marina, si dorme da Re!

Tutte le mattine e per tre volte al giorno è prassi comune, dovunque si sia, cospargersi le parti scoperte del corpo con crema repellente per le zanzare, particolarmente aggressive all’alba e al tramonto.

Di buon ora torno a Beloi in tuk tuk, intenzionato a memorizzare i punti cruciali del luogo. Visito il Beloi Beach Hotel, il più lussuoso dell’isola, che nonostante il nome è in collina e si raggiunge seguendo una scalinata. L’addetto incaricato, Carlos Da Silva Costa, mi mostra gentilmente le belle camere e l’invitante piscina affacciata sull’abitato, ma il mare è lontano. La coppia di clienti, diplomatici giapponesi a Karachi in Pakistan, mi confida di avere prenotato tramite internet e di essere rimasti “fregati” proprio dal nome dell’hotel, convinti di andare a finire su qualche spiaggia. Proseguo a nord del molo ed entro ad esplorare il più gettonato Barry’s Place, posizionato sulla spiaggia e popolato da giovani viaggiatori occidentali soddisfatti. Mr. Barry, un australiano di Brisbane, davanti ad un caffè mi racconta le motivazioni che lo hanno portato ad aprire il resort in questo tratto di costa, facendolo diventare il più noto ed apprezzato dell’isola. Ben organizzato, sana atmosfera spartana, attrezzature da sub, pasti inclusi al self service, free coffee 24 ore, prezzo giusto e la barriera corallina più facilmente accessibile proprio qui di fronte, abitata da migliaia di pesci. Volendo, Barry accompagna i clienti con l’auto fin dov’è possibile e, da li, si scende a piedi il sentiero per Adara, sul lato opposto dell’isola. Il tempo di percorso è di 4 ore, il costo del tratto in auto è di 20 dollari a testa. Ad Adara si può scegliere tra la semplice soluzione del Mario’s Place ed il più attrezzato Eco-Safari Camp di Robert e Tony Crean, in entrambi i casi la barriera corallina sulla costa nord ha correnti forti e dovrebbe essere esplorata solo durante l’alta marea.

Torno davanti al supermarket, punto nevralgico di Beloi, in cerca di un tuk tuk, ma invano. Qui incontro Volker Katzung, il tedesco titolare dell’Atauro Dive Resort, che in auto mi porta nella sua proprietà, poco a sud del molo. Racconta di essere stato un pilota dell’aeronautica tedesca in Portogallo, di avere poi girato il mondo per trent’anni, fermandosi infine qui con Safi, la sua graziosa e giovane moglie kenyota. Tipo tranquillo, ha quattro bungalow e un dormitorio da sei letti. Costruire altri bungalow sarebbe semplice ma Volker, tiene a sottolineare, non vuole stressarsi e non ne vuole altri. Così come Barry, si sente soddisfatto per essere in una posizione dove la barriera corallina è vicina alla riva, mentre negli altri punti bisogna nuotare perché è più distante. Volker telefona al driver di un tuk tuk che passa a prendermi e mi conduce al mio Manukoko Rek. Sulla via, dalla parte del mare, vedo le tende alloggio del Beach House dell’agenzia Compass, deserte.

Adesso posso mettere a confronto gli alloggi della costa est di Atauro:

al Manukoko Rek (US$15) sono l’unico ospite, al Beloi Beach Hotel (US$ 80) solo due giapponesi, all’Atauro Dive Resort (US$ 35 e 50 doppia) solo una coppia di australiani e alla tendopoli di Compass (US$ 40) nessuno, mentre da Barry (US$ 35, pensione completa) è pieno.

Alla colazione del mio terzo giorno, esprimo soddisfazione a Madalena in quanto mi pare fossero anni che non dormivo così bene. Anche durante il giorno mi sento profondamente rilassato, in pace col mondo. Subito afferma di sentirsi così pure lei, “è l’aria di Atauro”, talmente rilassante che dimentica gli impegni, ma anche computer e cellulare dovunque. Madalena, che vive qui da un paio d’anni ha una spiegazione su tutto. Sui nativi sempre cortesi e accondiscendenti precisa: “Non è debolezza, ma in 25 anni di occupazione indonesiana hanno imparato ad essere diplomatici e garbati anche se contrari”. Detto così, potrebbe sembrare che siano eccessivamente remissivi, ma gli indonesiani non ci sono da 17 anni ed il fatto che grandi e piccini salutano con un delizioso maun (fratello) e mana (sorella), mi pare sia proprio nella loro indole di persone educate e serene. Osservandoli mentre pregano percepisco in loro, inoltre, una forma di spiritualità che diffonde armonia e affidabilità. Madalena sa bene che è brava gente ma confessa che l’unico quartiere di Dili un po’ difficile da gestire a causa della micro criminalità è Bebanuk, sulla via dell’aeroporto, abitato da alcune gang d’arti marziali che si affrontano tra loro, ma che oggi sono in via di pacificazione.

 

Domani parto e desidero trascorrere alcune ore ad osservare, immobile, il mare col 64enne Vasco Lopes, la persona che più mi ha colpito in questa isola. Il mite e solitario Vasco possiede ed abita l’unica casa in muratura col porticato direttamente sulla spiaggia. Non parla mai, ma a domanda risponde. Passa le giornate a fissare il vuoto senza fiatare, quando vede un corpo estraneo portato dal mare, come un tappo di plastica o una noce di cocco, si alza, lo prende per buttarlo un metro più in là, poi con un bastoncino stacca una, due, tre foglioline secche dall’albero sulla sinistra e le getta. Chi passa si ferma, giusto per un saluto. Si trova bene con me, stiamo seduti rilassati in veranda, tra qualche parola e lunghi silenzi. In effetti, il rumore cadenzato delle onde ipnotizza la mente, facendoti entrare in una sorta di estasi. Sul muro bianco risalta la scritta blu a caratteri cubitali: “Casa do Mar, Kantina Mario Lopes, in Memoriam”. Con calma mi dice che Mario era suo padre, deportato qui da Sao Tomè in Africa nel 1947 e morto nel 1981. Pensavo che la casa fosse vuota e invece, al suo interno mi mostra, divisi per gruppi, distese di grosse conchiglie, ventagli di coralli rossi e statue in legno animiste di varie misure, con un altarino di Gesù ed un manifesto di Bob Marley alle pareti. Alla sera informo Madalena che Vasco ha una brutta infezione al piede destro e che andrebbe seguito. Ne ricevo un cenno di assenso, privo di commenti. A cena ieri ho gustato spaghetti al dente decisamente buoni, mentre la modesta porzione di pizza di questa sera è una vera delusione: cruda, insapore e troppo costosa (15 dollari).

Mi trovo di nuovo a Beloi e sto per salire sul ferry Laju Laju diretto a Dili. Nell’attesa, osservo alcune ragazze timoresi che fanno il bagno vestite, come le musulmane. Certo, 25 anni di dominazione indonesiana per certi aspetti non aiuta a far progredire l’universo femminile. Tuttavia, le nuove generazioni sono artefici di un cambiamento veloce, con i suoi aspetti positivi e negativi. Ad esempio, il matrimonio dei timoresi oggi avviene dopo che la coppia ha vissuto insieme o quando la sposa è incinta. Ha luogo solo quando le famiglie sono pronte a far fronte alle spese che queste cerimonie comportano. Le formalità matrimoniali rimangono però condizioni necessarie per il riconoscimento della sposa e dello sposo come membri delle due famiglie e della comunità. Mentre faccio queste considerazioni, una stupenda bionda in perizoma, praticamente nuda, attraversa il molo con estrema disinvoltura, in profondo contrasto con le timoresi che fanno il bagno vestite. Memore dei racconti di Carlos, colgo l’imbarazzo della gente che abbassa il capo per non guardare. I timoresi per di più, sempre secondo Carlos, perdono facilmente la testa per le bionde che, in giro dopo il tramonto, rischiano di essere molestate.

Sul ferry ritrovo lo spirito del viaggiatore nello scambio di esperienze con un giovane uomo portoghese che percorre le ex colonie per lavoro e racconta le sue impressioni sul recente viaggio in Africa: “Luanda (Angola), lui dice, è una città pericolosa ed oltremodo cara, mentre Maputo (Mozambico) è tranquilla ma non c’è niente da vedere”. In compenso mi parla con entusiasmo della bellezza della gente e della natura di Sao Tomè, aprendomi nuovi orizzonti. Sono partito alle 14:30 col mare piatto, attracco al porto di Dili alle 18. In cinque minuti di cammino, sono di nuovo alla guesthouse Da Terra di Carlos. Racconto brevemente il viaggio “Mal-dive” alle due lavoranti, Lucia e Nunzia, che ridono a crepapelle. E’ da tempo che, con rammarico, non sento più ridere così in Italia. Chissà come ridono a Sao Tomè?