Mogadiscio, città delle donne

Un volantino nella bacheca del circolo Casa d’Italia indica le sere di apertura dei locali da ballo cittadini: Giuba, lunedì, giovedì e sabato, Lido al venerdì e Terrazza tutti giorni tranne il lunedì. Mi piace un popolo che ama ballare, ancor più se considero che questo è un Paese musulmano e il venerdì una festa religiosa. Il “socialismo scientifico” di regime, nella sua laicità ha incluso la cultura e la religione islamica in modo organico, concedendo più aperture e meno rigore ai cittadini. Oggi è lunedì e andiamo al Giuba, allietato da un’orchestra di musicisti italiani.

Troviamo il grande giardino di fronte all’hotel e al dancing, occupato da gruppi di disinvolte ragazze che palesemente vogliono fare la nostra conoscenza, esprimendosi in un italiano davvero gradevole, divertente e a volte comico. Leghiamo con Amina di 19 anni, nome che lei stessa traduce in Annabella: “Anna è il mio nome e bella me lo ha messo la mamma, sai come sono le mamme: se anche fanno una scarafaggia la propria figlia è sempre bella”. È diffusa l’usanza di darsi un soprannome, attinente al carattere della persona, o di scegliersi uno pseudonimo a piacere. Poiché non esistono i cognomi e i nomi sono quasi sempre gli stessi, con un’alta percentuale di omonimie. Con Amina c’è Rita, particolarmente bella e disinvolta, che si fa chiamare “Fortuna”. Molte non conoscono la loro data di nascita, Rita afferma di essere nata “nell’anno della bandiera”, cioè dell’indipendenza avvenuta nel 1960 e quindi ha 19 anni pure lei. Stupenda definizione, per noi Rita o Fortuna diventerà per tutta la sera “Bandiera”.

Ci invitano a casa loro, prendiamo alcune birre e saliamo sul taxi di un loro amico parcheggiato davanti al Giuba. Un altro taxista fa presente di avere lui la precedenza sulla prossima corsa ma, dopo un vivace battibecco, il “nostro” autista accende ugualmente il motore e si accinge a partire in segno di sfida. La lite si accende minacciosa e in un lampo due altri taxisti spostano il loro mezzo ed ostruiscono la strada in modo da impedirci di passare. Per niente scoraggiato, il nostro driver inserisce al volo la retromarcia, gira l’auto e riesce a sfuggire al blocco, subito inseguito dal taxista furioso che ci raggiunge e prova a buttarci fuori strada tentando di speronarci verso l’esterno. Poi desiste. L’impressione è che questo genere di scontri siano abbastanza frequenti e si risolvano il giorno dopo con una semplice bevuta insieme.

Arrivati a destinazione, constatiamo con grande stupore che la casa delle ragazze si trova proprio di fronte al nostro hotel, ad una ventina di metri dal balcone della nostra camera. Aprono la bottiglia di gin della nonna e balliamo tutti euforici per ore ma, ancor più unici e piacevoli, sono i racconti della loro infanzia, arricchiti da fantasiose credenze, favole, miti, canti vari e superstizioni di quando erano “bambine selvagge”, in un italiano spassoso, abbellito da termini dei tempi passati. Scopriamo così che il loro uso delle vocali ben si sposa con la nostra cantilena tipicamente emiliana: “Somaalia, Hergheeisa, Itaalia, Booloogna”. Un mondo fatto di colori e immagini reali e astratte fuse assieme ed espresse con leggerezza. Amina si appiccica a me, rivelando il desiderio di un progetto di vita assieme, “sposiamoci”, mentre Fortuna ci prova con Aldo.

Amina ed io ci addormentiamo assieme, un po’ scomodamente e quando alle 5 mi sveglio, per evitare di fare chiasso esco dalla finestra aperta situata al piano terra e vado a dormire in hotel oltre la strada. Il giorno dopo Amina è offesa a morte per la mia singolare uscita, vissuta come un affronto: “Quando a una donna piace uomo, uomo ama altra donna. È sempre così”. La notizia vola nel quartiere e per tutte le ragazze adesso sono “Scappafinestre”, tutto attaccato. Ora sanno dove alloggiamo e ci aspettano all’uscita: appena ci affacciamo fanno segni e mandano baci. Prima di uscire dall’hotel controlliamo sempre dalla finestra che la strada sia libera.

Colazione al Trocadero, il ristorante dell’albergo Croce del Sud, altro luogo di aggregazione storico dei nostri connazionali gestito da Carlo Alvaro e dalla sua gentile moglie Betty. Nello stesso stabile, con la vetrina di fronte al cinema Centrale, c’è pure l’oreficeria dei signori Lugli di Carpi. L’intero complesso dell’hotel, con annessi negozi ed un grazioso giardino alberato al suo interno, è di proprietà della famiglia Briata di Rovereto di Trento. All’edicola e cartolibreria Porro, nella grande hall, troviamo il gestore Giovanni Storchi contrariato a causa di uno screzio avvenuto con le due proprietarie che lui definisce acide e per niente simpatiche. Si dice meravigliato del nostro percorso da Gibuti: “Avete avuto fegato a bere e mangiare i cibi immondi nei villaggi attraversati”.

Le pagine di Stella d’Ottobre, il quotidiano locale in lingua italiana, danno grande risalto ai fatti politici e drammatici che fotografano la realtà del momento nei Paesi della regione: il dittatore dell’Uganda Idi Amin è ormai circondato dai partigiani ugandesi e tanzaniani, mentre ad Addis Abeba fa scalpore il comizio delirante del dittatore rosso Menghitsu che arringa la folla rompendo al suolo bottiglie piene di sangue per incitare a combattere i nemici del popolo, con riferimento ad eritrei, somali e musulmani in genere. Il giornalaio fa presente che il governo etiope è cristiano in un Paese nel quale la maggioranza della popolazione è musulmana: “È ossessionato dalle insurrezioni islamiche finanziate dai Paesi arabi”.

Ecco che arriva l’onnipresente Giuseppe, il tutto fare che troviamo dovunque vi siano italiani tranne che alla Casa d’Italia dove pare sia stato espulso a causa di debiti non pagati. Il giornalaio lo avverte che ci sono due tizi che lo stanno cercando e, in tono scherzoso, aggiunge: “Per darti un sacco di botte”. Facciamo due passi assieme per andare da un suo amico ebreo che “fa mercato nero” all’Uruba, il lussuoso hotel con due enormi zanne d’elefante ai lati della reception. Cambiare valuta in questo Paese è un’attività illecita e rischiosa, ma Giuseppe è sereno e dice di conoscere i poliziotti. Abita qui da mezzo secolo ed è un simpatico trafficone molto noto e tollerato a Mogadiscio, ci avevano già parlato di lui alcuni somali nello Yemen. Parlando di affari, racconta di alcuni commerciati che hanno fatto fortuna importando indumenti e scarpe fuori moda per rivenderli a prezzi triplicati: “Qui un geometra può operare da ingegnere, un odontotecnico da dentista e un maestro elementare può insegnare al liceo”. Diamo un’occhiata alle camere, eleganti ma spoglie e calde da far grondare di sudore perché l’aria condizionata non funziona e la tv non è ancora arrivata in Somalia.

Seduti nella hall, che per il clima torrido sembra una serra, Giuseppe descrive una società somala di tipo matriarcale: “Le donne qui hanno grinta e nella vita di tutti i giorni rispondono a tono al maschile. Sono il pilastro e la forza motrice della società somala”. Sottolinea la differenza tra la città e le campagne, dove il maschio si astiene dal faticare e portare pesi, lasciando tali incombenze alle donne e ai somari. Lamenta di dovere sempre fare attenzione: “Alcune sono artiste del ricatto, ti provocano poi se ‘cedono i punti’ in un atto sessuale anche lieve minacciano di dirlo ai parenti per chiederti denaro o anche per essere sposate”. Spiega che solo lo sposo può effettuare la defibulazione che avviene direttamente prima della consumazione del matrimonio. Poi Giuseppe si fa più serio: “Una pratica molto diffusa in Somalia che crea grossi problemi alle donne anche al momento del parto poiché il bambino deve attraversare una massa di tessuto reso poco elastico, in quel momento il feto non è più ossigenato dalla placenta e il protrarsi della nascita toglie ossigeno al cervello rischiando di causare danni neurologici o la morte della madre e del figlio”.

A questo proposito Giuseppe rivela un suo intimo desiderio: “Bisogna andare alle Bangiune!”. Quelle che Giuseppe chiama folcloristicamente “Bangiune” sono in realtà le isole Bajuni situate al confine col Kenya, abitate da donne prive di infibulazione. E precisa con vigore: “Lì hanno il grilletto!”. Dettaglio anatomico femminile la cui assenza o presenza determina il piacere sessuale delle donne. Lo salutiamo, anche se nell’incontralo di nuovo viene spontaneo chiedergli: “Giuseppe, andiamo alle bangiune?” e lui, con un ironico e familiare accento bolognese, sbotta sempre in automatico: “Come no? Hoi!”.

Viaggiare è un piacere ma anche un “duro lavoro”, essendoci sempre vitali questioni da valutare e risolvere. Adesso, ad esempio, dobbiamo definire la faccenda del documento per il cambio di valuta che avrebbero dovuto consegnarci alla frontiera con Gibuti e senza il quale pare si incorra in un grave reato. Chiediamo un parere ai diplomatici e con infinita comprensione e gentilezza la dottoressa Sabrina Palesati, a nome del consolato italiano, ci concede e documenta un prestito di 3000 scellini a testa (500 dollari) da restituire entro sei mesi a Modena, atto a giustificare in parte le nostre spese in caso di controllo all’uscita dal Paese. Anche questa è fatta, almeno per il momento.

Entriamo nel negozio d’artigianato di fronte all’hotel Arta, per conoscere il costo di una lunga collana a palle gialle grosse posta in vetrina, che da giorni mi incuriosisce essendo il commercio d’avorio proibito in gran parte del Pianeta. Ci sorprende vedere nel negozio due clienti russi e ancor più sentire che il titolare somalo parla perfettamente la loro lingua. Appena usciti gli chiediamo il motivo: “In pochi anni ci siamo adeguati ai russi… abbiamo imparato in fretta le regole di mercato”. E aggiunge: “I sovietici volevano mandare via tutti gli italiani ed iniziare ad insegnare il russo nelle scuole”. Per la collana chiede 350 scellini ma certamente a 300 la cede (50$), una cifra irrisoria se paragonata al suo valore commerciale in Europa. La Somalia adesso, nel contesto della “guerra fredda”, è protetta dagli Stati Uniti e quei pochi russi ancora presenti sono dei lavoratori. A tal proposito l’esercente ci riferisce che oggi è il giorno del free party settimanale organizzato al club dell’ambasciata americana, situato nella periferia ovest oltre l’aeroporto, in cui si beve e si mangia per poca spesa.

Il taxista per il club chiede 20 scellini ma noi gliene offriamo 10. Ci osserva un attimo e a sorpresa sentenzia: “Ok, se siete italiani la differenza la metto io, se siete francesi o inglesi nessuno sconto!”. L’ambasciata è una bassa costruzione rettangolare all’interno di un vasto perimetro delimitato da un muro e il club è altrettanto formale e freddo, niente di speciale. Ci dicono che questi party sarebbero stati ideati per togliere il ruolo di prima donna alla Casa d’Italia, qui giudicata decadente e borghese. Tutta invidia, il nostro circolo è in grande sintonia con il tessuto umano somalo, mentre americani e russi vogliono solo comandare per spartirsi il potere e i profitti. Dopo il party facciamo l’autostop, si ferma un ragazzo somalo alla guida di un grosso fuoristrada che per prima cosa ci chiede di quale paese siamo. Italiani? Ok salite. “Non voglio inglesi sulla mia macchina”. Rifiuto dovuto alla politica separatista sostenuta dagli inglesi nell’ex Somalia britannica.

A mezzanotte saliamo al dancing La Terrazza, costruito sul tetto di un palazzo del centro, per un appuntamento con Amina e Fortuna. Dopo una vivace discussione alla cassa, riusciamo ugualmente a passare per dare un’occhiata. Si tratta di un ristorante con pista da ballo e piccolo bar adiacente, gestito dalla dinamica Anna Azan, impegnata a cercare di tenere tutto sotto controllo al meglio. Malgrado ciò, rimane il locale da ballo più screditato in città dove, da più parti, ci hanno sconsigliato di andare poiché qui “può succedere di tutto”. L’atmosfera, se paragonata al Giuba, è più ricca di tensione, una sorta di “balera night” in gran parte frequentata da giovani donne che amano ballare e particolarmente libere, alcune delle quali disposte a fare sesso per simpatia ed altre per un compenso in denaro. Siamo in ritardo di un’ora e giustamente le due ragazze se ne sono andate, stanche di aspettare. Sara, appena conosciuta, è brilla e comincia a tirare calci e schiaffi a tutti quelli che si avvicinano a noi, come per proteggerci. In verità rivendica la sua esclusiva per una bevutina gratuita ma con noi ha fatto male i conti, di regola non offriamo niente a nessuna. Un’altra, di 32 anni che ne dimostra 50, si promuove così: “Se mi vedi nuda non torni più a Bologna”.

Tutte le ragazze nel locale conoscono la nostra storia di ieri, della nottata a casa di Amina e sostengono che sono “scappato” dalla finestra perché non mi piace Amina. Per questo ora tutte la prendono in giro ed è mortalmente offesa e terribilmente arrabbiata con me. Ha promesso alle amiche che quando m’incontrerà mi romperà una bottiglia in testa. Tutto da ridere, da queste parti vanno via così. Questione d’onore… Come abbiamo sentito dire più volte, ci è sempre più chiaro che Mogadiscio è come un piccolo paese, tutti sanno tutto di tutti. Ironizziamo sul provincialismo di questa città con Barni e Sada, due sobrie fanciulle che ci invitano a seguirle cercando di evitare le ronde notturne dei gendarmi del popolo, ma una volta giunti a casa loro, preferiamo salutarle e andare in albergo. Sorprendente questa marea di amiche che abitano sole, senza i genitori.

Fermiamo il primo taxi pronti al consueto diverbio, porgiamo i 10 scellini canonici all’autista, mentre lui ne vorrebbe 20, unicamente perché siamo stranieri. L’effetto che suscitiamo ai taxisti è diametralmente opposto e probabilmente riflette il pensiero comune: quelli che per simpatia ci portano addirittura senza pagare e quelli che invece chiedono la tariffa doppia.

Alle due di notte davanti al nostro hotel sono ad attenderci Fortuna e Amina, che fa un gran baccano: “Tutto il giorno che non mangio per questo”. Facciamo la pace con un paio di birre, ma per la troppa confusione arriva la “solita” retata della milizia popolare di quartiere, forse chiamata da alcuni ospiti dell’albergo, ed è subito un comico fuggi-fuggi generale. Scappiamo tutti tranne “Bocca d’acciaio”, così nominata per le capsule in metallo sui denti laterali. Verrà subito rilasciata in quanto capita spesso di essere fermati da amici o parenti. Sono ronde formate in genere da tre o quattro giovani fra donne e uomini, armati di bastone che indossano camicia e cappello verdi e una bandana rossa attorno al collo. Amina spiega che hanno il ruolo di vigilanti del regime: “Fanno un corso di addestramento della durata di tre mesi e dopo diventano informatori del servizio paramilitare, chiamato Xarunta Ciidanka”. E aggiunge: “Da non confondere con il servizio di volontariato coatto, chiamato “Iska waugabso”, in cui ognuno a turno deve pulire le strade o svolgere comunque un lavoro socialmente utile”. Idem per Amina e tutte le altre.

Al ritorno in hotel, restiamo fino all’alba in balcone a gustarci il susseguirsi di pseudo retate di questa “polizia cittadina” che spesso avvengono proprio davanti alla nostra camera, essendo essa su un breve tratto di strada illuminato. Pare di essere sul set di un film comico, da piegarsi in due dal ridere. Le notti a Mogadiscio sono movimentate da passanti che vagano in cerca di fresco. Ogni 10-15 minuti passa un gruppo di persone che regolarmente parla a voce alta, a volte sbraita o litiga, arriva la milizia di turno, li ferma, chiede i documenti ed iniziano le urla, le fughe e le rincorse. Nel linguaggio parlato, il somalo è mischiato con vocaboli ed espressioni in italiano che spesso ci permettono di comprendere il senso del discorso. Si avverte che anche per loro è un po’ come giocare a guardie e ladri, senza risvolti drammatici. A volte però entrano in conflitto, essendo a loro volta sorvegliati da un commissario di polizia ben più severo e temuto.

Al mattino, verso le 10, arriva un invocato acquazzone monsonico che dura solo pochi minuti, sufficienti però a riempire le strade di gente contenta di lavarsi sotto la pioggia con una saponetta. Dalla nostra camera seguiamo anche alcune fasi della cerimonia di un matrimonio, che durerà tutto il giorno e la notte, con musiche, danze e grida di brindisi da brividi.

Finiamo a cenare al Farax Cusida, una trattoria popolare per somali che si trova alle spalle del Cappuccetto Nero. Qui preparano ottimi “sambusi”, piccoli scrigni triangolari di pasta sottile, ripieni di carne di manzo speziata e fritti. Ai somali piacciono gli spaghetti conditi con carne di pecora o capra e addolciti però con pezzi di banana. Mentre mangiamo, dalle finestre del locale si affacciano alcuni bambini che fanno cenni ad ogni tavolata per avere il cibo avanzato. Ne rendiamo contenti due-tre ma poi ci allontaniamo da quella situazione imbarazzante e frustrante, purtroppo già vissuta in altre parti del continente.

Essendo comodo in centro città, alle 2 di notte saliamo di nuovo a dare un’occhiata al “vivace” Terrazza, dove ci intrattiene “India”, dai lineamenti orientali già conosciuta in precedenza. Un paio di donne si lamentano perché non offriamo loro da bere ed una di queste si rivolge alla nostra amica in tono indisponente: “Cosa fai, vai coi morti di fame?”. “Morta di fame sarai tu!”, risponde secca la brava “India”. Si avvicina poi un mingherlino tutto nervi e decisamente sbronzo che volutamente mi provoca, vorrebbe fare a cazzotti con me perché sono un “gal” (bianco) e lamenta che le somale non vanno con lui nonostante abbia soldi e può offrire da bere. Faticano ad accettare che noi non siamo qui in cerca di donne ma per passare una serata ascoltando musica, fare due chiacchiere con chiunque e “svagarci alla pari”. Questi battibecchi africani espressi in un buffo italiano a noi risultano divertenti e curiosi poiché rivelano comportamenti comuni alle nostre balere emiliane degli anni Sessanta.

Continua su Wall Street International Magazine