Nomadi Penan

La curiosità che ha acceso in me il desiderio di incontrare i Penan, per conoscerne meglio gli usi e i costumi, è nata quando, nella veranda della cucina del campo, in una sera di forte pioggia tropicale, ho sentito i custodi del Bako National Park commentare animatamente la notizia, a tutta pagina del Sarawak Tribune, della battaglia dei Penan contro i bulldozer e la deforestazione selvaggia, lungo il fiume Baram, nell’entroterra a est del Brunei. Al loro fianco Bruno Manser, un giovane svizzero, passato poi alla storia per aver difeso strenuamente le foreste del Borneo dalle quali fu fagocitato.

Tutti manifestavano grande ammirazione per Bruno, ma su di lui e sugli aborigeni ribelli, definiti dal governoinsurgents pendeva una taglia. In questo luogo, sentii pronunciare più volte e con particolare enfasi la parola “molong”, che nel linguaggio Penan significa “non prendere mai più del necessario”. Parlavano del profondo rispetto di questo popolo nei confronti di Madre Natura e, allo stesso tempo, dell’equa spartizione di ciò che essa dona in rapporto allo stretto necessario alla loro sopravvivenza. Un popolo che veniva a me descritto, dunque, come giusto e democratico oltre che riservato, schivo, leale e molto timoroso nei confronti degli spiriti della foresta. Ricordo di essere restato decisamente sconcertato e piacevolmente sorpreso nel sentire che, per loro, il furto, la violenza e, ancor più l’omicidio, sono inconcepibili. Secondo i candidi Penan, il “crimine” più grave di cui un individuo possa macchiarsi è lo sii-hun, ovvero l’avarizia, che viene punita con l’indifferenza. Ai taccagni, di conseguenza, viene a mancare ogni supporto affettivo, per cui, ignorati dalla comunità finiscono per vagare in solitudine nella foresta, come fantasmi.

La stessa sorte tocca a coloro che vanno fuori di senno, preda secondo le loro credenze, degli spiriti maligni che si sono impossessati della loro mente. A conferma, Noor, una guida che lavora nella foresta, mi racconta che una volta fu aggredito, con insulti e bastonate, da una donna sola sbucata dal nulla che lo aveva visto urinare fra la vegetazione. La donna Penan sosteneva che lui stava sporcando la foresta, cioè la sua casa. Per questa filosofia di vita, e per altre sorprendenti sfaccettature della loro cultura, cominciai a indirizzare le mie attenzioni verso questo popolo che tuttora considero davvero straordinario. Non è stato semplice cogliere e comprendere le differenze fra nuclei diversi di individui all’interno della stessa etnia sparsi nella vasta foresta del Borneo, fra altipiani, montagne e pianure Ulu (zone sorgenti dei fiumi), e divisi dal fenomeno del nomadismo, del semi-nomadismo e della stanzialità.

Continua su Wall Street International Magazine