Myanmar: terza parte – La via del Sud: da Yangon a Kawthaung
Arrivo con l’amica Patty alla Soe Brothers 2 Guesthouse di Hpa-an, nei pressi del fiume Saluen che bagna questa placida capitale del Kayin, lo Stato dei “rivoltosi” Karen, fino a ieri in guerra coi confinanti Mon e l’etnia Bamar dominante. Nella sala delle colazioni, posta sulla veranda panoramica all’ultimo piano, chiede di sedersi al nostro tavolo Sophie, una giovane francese in giro per l’Asia da quattro anni con organizzazioni non governative, la quale fa presente che al momento attuale in Myanmar sono in atto ben cinque guerre civili, con veri eserciti che si scontrano. Ci dice che al Nord hanno appena ucciso un giovane turista tedesco. Guardo su Internet per avere ulteriori dettagli e scopro che il giovane guidando una moto è saltato su una mina antiuomo, più che di uccisione si tratta di un incidente che parla delle guerre in atto. Sophie precisa che fino al 2011, anno in cui si è insidiato come presidente del Myanmar l’ex generale Thein Sein, gli attacchi verso la popolazione Karen erano quotidiani, coi villaggi dati alle fiamme e le donne stuprate.
Il cessate il fuoco coi Karen è stato firmato nel 2015 in forma “temporanea” ed ogni tanto si segnalano scontri, l’ultimo due mesi fa, nell’ottobre del 2019. Se siamo qui oggi, liberi di andare in giro, è in seguito all’accordo siglato con il governo centrale, proprio in questa città, dopo una cruenta guerra durata sei decadi. “I Karen poi”, conclude Sophie: “Sono originari del Tibet e a differenza di altre minoranze etniche birmane, si oppongono per motivi etici al traffico di droga”.
Hpa-an è l’unico centro urbano di rilievo in un contesto territoriale esclusivamente agricolo. Curiosando per le vie del centro e nei mercati non si avverte alcuna tensione particolare, anzi, la gente che incontriamo è sempre sorridente ed estremamente cordiale. Patty ed io siamo venuti in questa città per discendere il fiume ma anche per vedere i templi nelle grotte calcaree dei dintorni, ma siccome siamo ancora storditi dalla moltitudine di templi appena visti decidiamo di respirare la città senza impegni per cercare di coglierne l’anima. Spostiamo quindi il nostro interesse su una dimensione più autentica del quotidiano. Finiamo anche in una casa di massaggi, dove le titolari hanno scattato decine di foto prima di salutarci.
Dopo il tramonto l’atmosfera paesana si anima sia nel night market del lungofiume che in quello sulla riva orientale del lago Khan Thar Yar, collocato nel centro della città, dove servono frullati di frutta fresca, uno squisito caffè nero birmano e piatti tipici della cucina locale e thailandese. Anche qui, come nel resto del Paese, notiamo le giare d’acqua coi bicchieri davanti a case, negozi e ristoranti a disposizione dei passanti nel segno dell’accoglienza. Tutto da ricordare è anche l’incontro con un gruppo di giovani ragazze che passano di negozio in negozio a cantare, suonare e ballare in cambio di una doverosa offerta. Nessun turista in giro e devo dire che anche questo è piacevole. L’impiegata alla reception provvede a prenotarci il posto sulla lancia per Mawlamyine e al trasporto fino all’attracco che si trova lungo l’argine melmoso del fiume, non distante dalla guesthouse. Sulla lancia con tettoia, dopo di noi salgono tre ragazzi francesi, una coppia di americani, una di israeliani e infine una giovane tedesca, tutti viaggiatori indipendenti, coi quali è facile interagire. Quest’ultima si sta dirigendo verso un monastero sulle colline per un corso di meditazione buddista, diventando per noi una stimolante e piacevole compagna di strada. Scendiamo lentamente il Saluen River, il secondo corso d’acqua più lungo del Sud-Est Asiatico dopo il Mekong, accompagnati sulla sinistra dalla inconfondibile ed imponente sagoma del monte Szegabin e dalla visione di templi dorati eretti su entrambe le sponde un po’ dovunque.
In meno di tre ore siamo a Mawlamyine, sistemati alla Golden Rose Guesthouse, a pochi passi dal centro. Capitale dello Stato Mon, questa città ci cattura subito per il suo fascino tropicale in epoca coloniale. Chiese imponenti, moschee indiane e cadenti edifici costruiti tra il fiume Thanlwin e le morbide colline fregiate di stupa. Tutto sembra avere una luce particolare. Con il nome di Moulmein è stata la prima capitale della Birmania inglese, dal 1827 al 1852, e pare non sia cambiata molto da quei tempi. Nel passato remoto i regni Mon hanno dominato l’intera regione per secoli e finalmente nel 2012 è stata siglata la pace con il governo centrale. Oggi vari gruppi culturali si battono per la conservazione delle tradizioni proprie dell’etnia Mon contro i processi di assimilazione operati dai governi birmano e tailandese.
Patty ed io ci orientiamo ad intuito, pochi passi e veniamo attratti dalla mole della Holy Family Cathedral, la diocesi cattolica di Mawlamyine in stile neogotico con le effigi papali del Vaticano sul frontale. I cristiani nel Mon sono lo 0,5%, in un paese quasi totalmente buddista. Le ragazze nel retro della chiesa, accanto alla grotta ispirata a Betlemme, ci dicono che qui si celebra la messa in latino con rito cattolico romano. Con loro un giovane trans in attillato tailleur rosso fuoco, ci dimostra che l’omosessualità è tollerata dalla giunta militare anche se formalmente vietata. È una chiara dimostrazione che è in atto un cambiamento culturale e politico in un Paese in cui il destino del popolo è sempre stato gestito da militari notoriamente brutali.
In breve, tutti chiedono di fare delle foto insieme a noi, tanto da farci sentire lusingati. Arrivati sul lungofiume per assistere al tramonto, un uomo ferma garbatamente Patrizia, le prende le mani, le bacia con un candido “You are very beautiful” e prosegue senza voltarsi. Un gesto nel segno della gentilezza.
Per cenare, il vasto food stall notturno sul fiume è per noi il posto ideale, con una vasta scelta di piatti preparati al momento. Per chiamare i camerieri, è usanza fare un suono con le labbra uguale a quello che noi facciamo per dare un bacio o richiamare l’attenzione di un micio.
È sabato sera e nelle vie del centro si sta svolgendo una festa con musiche e curiose attrazioni artigianali, fatte in casa. Ci colpisce il banco della roulette dove, soprattutto le donne, puntano banconote sulle foto di artisti locali messi al posto dei numeri. Si scommette denaro anche al flipper, con i percorsi tracciati da chiodi e le palline sganciate da una cordicella. Attrazione degna di nota è rappresentata anche dal gruppo di virtuosi musicisti che usano strumenti tradizionali, come lo xilofono, il tabla e i flauti, con una suggestiva base creata da un’intera orchestra che suona però nascosta, dietro le quinte. Il pubblico è sdraiato al suolo, disteso su stuoie ad ascoltare.
Ci rilassiamo per un tè in un baracchino e notiamo che su ogni tavolo sono lasciate in offerta due sigarette sciolte corredate dell’accendino, quale usanza locale. Il titolare poi, affabilmente ci allunga due pezzi fumanti di gnocco appena fritti “alla modenese”. Gente davvero amabile. Sulla via del ritorno in albergo, un altro signore di passaggio prende le mani di Patty, le bacia in modo ossequioso dicendo “Thank you”. Altro fatto insolito e piacevole è la musica che fino all’alba sovrasta dolcemente l’intera città.
La mattina di buon’ora ci avviamo verso la pagoda sulla collina alle nostre spalle, non distante, sbigottiti dalla marea di motocicli stracarichi di gente e bambini, anche in fasce. Pochi metri e incontriamo un’altra imponente chiesa cristiana, questa però in evidente stato di abbandono. È la Saint Matthew’s Church del 1832, di rito anglicano. Dal giovane sacerdote, sempre in cerca di fondi per il restauro, apprendiamo che è la prima chiesa britannica costruita in Birmania, usata poi come stalla per i cavalli dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Un monumento storico che merita di essere visto, cinto da alberi tropicali ed animato dal vociare di bambini che giocano dietro la chiesa.
Giriamo l’angolo e subito veniamo chiamati a pasteggiare con riso e pollo in un salone dove si sta festeggiando un matrimonio tra musulmani di origine indiana. Nel periodo coloniale, quando l’esportazione di teak era all’apice, un flusso costante di immigrati islamici giunse a Mawlamyine dall’India, in qualità di braccianti, impiegati, commercianti e soldati. Atmosfera per noi stimolante, dopo il gelato ci scateniamo con le foto, tavolo dopo tavolo e infine assieme ai neo-sposini.
Patty, bionda e con occhi azzurri, attrae tanto che in molti aspirano ad avere una foto con lei, in particolare le donne. Le giovani, eleganti nei modi, ostentano stupendi sorrisi e sguardi fin troppo dolci. Le musulmane, infatti, parlano con gli occhi e a volte in modo seduttivo. Interminabile, infine, il trasbordo dei regali degli sposi, un camioncino pieno di pacchi di tutte le forme.
Una scalinata tra le case ci conduce in breve tempo davanti all’ingresso della U Zina Pagoda, costruita nel XIX secolo, sorvegliato dai due consueti leoni giganti a guardia del tempio. Si dice che questo santuario, come diversi altri visitati in precedenza, conservi dei capelli del Buddha. La sala attorno allo stupa che più colpisce è quella del Buddha sdraiato, per le sue forme palesemente effeminate e sensuali, contornato da effigi che rappresentano le diverse condizioni umane, dalla meditazione alla morte, le stesse che spinsero il Buddha nel suo cammino di ricerca spirituale.
Nel piazzale antistante, da dove si gode una notevole veduta della città dall’alto, altre ragazzine chiedono di fare una foto di gruppo assieme. Ormai quella delle foto è diventata una simpatica consuetudine.
Per restare nel tema dei templi ci spostiamo a Nord del centro, alla più nota Kyaikthanlan Pagoda costruita nell’857 d.C. su una ripida collina, raggiungibile anche in ascensore. Il suo stupa misura 46 metri ed è il più alto ed importante di Mawlamyine, tuttavia Patty ha “fatto il pieno” di luoghi di culto e preferisce attendermi nel cortile alla base. Questa abbondanza di templi la vive come un’interpretazione eccessiva del culto religioso, una sorta di megalomania ecclesiale. Per certo è una spettacolarizzazione dei luoghi di culto. Personalmente non posso esimermi dall’entrare nel tempio anche e soprattutto per osservare il panorama descritto da Rudyard Kipling nel suo The Road to Mandalay pubblicato nel 1890, poema che rese celebre la Birmania in Occidente. Pure lo scrittore anticonformista George Orwell, anch’egli anglo-indiano, arrivò a Mawlamyine nel 1922 e vi restò per sei anni, esperienza che ispirò il romanzo Burmese Days. Effettivamente da questa assolata terrazza si gode una veduta mozzafiato della città, delle isole vicine, del golfo di Martaban, dell’intreccio dei fiumi circostanti e delle montagne calcaree dello Stato dei Karen ad Est. Immancabile, a gentile richiesta, la foto assieme ad una copia di deliziosi fidanzatini.
Percorriamo la lieve pendenza che scende verso il centro in compagnia di un anziano monaco molto aperto al dialogo, il quale ci invita ad entrare in un convento alle spalle delle carceri. Qui troviamo schiere di bambine monache nelle loro tuniche rosa e con le teste rigorosamente rasate. Ci spiega che i monasteri in Myanmar hanno un ruolo importante nel percorso formativo ed ogni birmano, di entrambi i sessi, ha l’obbligo di svolgere un periodo di noviziato prima del suo ventesimo anno di età, anche se poi molti di loro trascorrono solo pochi mesi di servizio religioso senza impegnarsi per tutta la vita. Un rito di passaggio, motivo di orgoglio per ogni famiglia. In effetti, non ho mai visto tanti monaci e monache in nessun altro Paese al mondo. Al ritorno passiamo per il quartiere indiano e dal vitale Zeigyi Central Market, scenari di una città incantevole e sudicia oltremisura, ma proprio per questo suggestiva. I birmani di origine indiana sembrano i meno propensi a socializzare con gli stranieri, forse perché in prevalenza musulmani. Non abbiamo incontrato nessun occidentale.
Il treno per Dawei, nostra destinazione, parte alle 4:30 di notte ma per l’acquisto del biglietto dobbiamo alzarci alle 2. Anche in questi piccoli disagi vedo con piacere che l’amica Patty ha sempre un atteggiamento propositivo, affronta gli ostacoli con piglio maschile, ama muoversi e faticare se occorre, non si lamenta, anzi si esalta. Nelle stazioni birmane, coi suoi treni di un tempo, più che altrove si respira l’atmosfera dell’epoca coloniale. Un cartello invita la gente a prendersi cura dei turisti, in segno di benvenuto. Ed è vero, subito c’è chi si prende cura di noi e verifica che tutto sia in ordine.
Emblematici i secchi attaccati alle colonne usati come sputacchiere per i consumatori di betel, ovvero quasi tutti. Si tratta di un altro record birmano, la noce di betel, ricavata dalla palma di areca, è usata in tutto il Sud-Est Asiatico ed oltre ma in nessun altro Paese il consumo è così diffuso, riscontrabile dalle tante bocche dai denti neri erosi, dalla quantità di chiazze color vermiglio al suolo e dalla miriade di baracchini che confezionano i set già pronti per l’uso. Un impasto di noce macinata e idrato di calce che dà energia, per la sua proprietà stimolante, associata ad un blando effetto narcotico. È usato anche come cardiotonico e digestivo. Avvolto in una foglia di pepe di betel, assieme ad altre spezie, come cannella, noce moscata ed altre, si posa al lato della bocca e si succhia, dal sapore aromatico e piccante.
Allo sportello della stazione c’è un po’ di fila, i biglietti vengono scritti a mano e si procede lentamente. Dawei dista 275 km e il viaggio dura 16-17 ore. Fino a Ye, a metà percorso, il ticket in Upper Class costa l’equivalente di 1,30 euro, dopo si deve cambiare treno ed occorre rifare di nuovo il biglietto. Saliamo su un treno iper scassato e decisamente sporco che, paradossalmente, ci esalta per il sapore d’avventura che ci trasmette. Dicono sia il treno più lento al mondo, candidato al Guinness. Solo qualche anno fa sulle guide si leggeva che nessuno straniero si avventurava oltre Mawlamyine a causa della guerriglia, del brigantaggio e della mancanza di trasporti. Una fase storica quasi completamente superata: nel nostro vagone sono comunque presenti due militari super armati che però dormono “sbracati” su due sedili per tutto il tempo del percorso.
L’Upper Class consiste in un unico vagone con poltrone imbottite reclinabili, mentre nella Ordinary Class la gente si accalca su rigidi sedili in legno, dove noi due andiamo spesso a parlare con quelli che dimostrano interesse nei nostri confronti. Si procede a 10-15 km all’ora ma ci sentiamo sbattuti come se il treno andasse ai 200, effetto tipico delle ferrovie a scartamento ridotto, per le rotaie più vicine rispetto a quello ordinario, certamente non indicato per chi ha problemi di reni. In aggiunta, il frastuono delle rotaie, il fischio frequente e acuto della locomotiva e l’odore di nafta che entra da finestrini e porte lasciate aperte. Tutto ciò ai birmani concilia il sonno e dormono beati come bambini. È bellissimo!
La notte è fredda ed occorre coprirsi con giubbino e cappuccio ma all’arrivo a Ye, a metà mattinata, già si torna a sudare. Due funzionari ci aiutano ad accelerare la prassi del biglietto poiché la sosta a Ye dura solo 30 minuti. Non c’è Upper Class per Dawei ma solo First Class (euro 1,45), che in pratica è su legni come la Ordinary Class ma solo “più cara” e con meno gente.
Pochi chilometri e lasciamo lo Stato Mon per entrare nel Tanintharyi, la regione meridionale amministrata dal governo centrale. Ye e Dawei sono state isolate fino al 1998, anno in cui fu completato quest’ultimo tratto della ferrovia, più lento del precedente. Il paesaggio è composto da verdi risaie, rustiche fattorie tra le palme e sosta nelle stazioni di paesi bucolici, col flusso costante di venditori che sale da un vagone e scende dall’altro con cesti portati sulla testa pieni di frutti, dolcetti, riso al curry, uova, pollo fritto o pesce, ma anche acqua, tè e caffè caldi. Un mercato mobile su rotaie che mi riporta ad altri viaggi fatti in altri tempi. Sono saliti anche un paio di topi che girano sotto i sedili ed è saggio non lasciare cadere briciole e non togliersi le scarpe.
Patty è al settimo cielo, i soggetti interessanti non mancano e spesso si mettono anche in posa per una foto. Le soste alle stazioni in genere durano pochi minuti ma non sempre, ad esempio, da oltre un’ora siamo fermi in questa stazione di campagna e nessuno pare saperne il motivo. Alle 20,30 scendiamo al capolinea di Dawei, dove termina la ferrovia. È in fase di costruzione il proseguimento della strada ferrata verso Sud fino a Myeik e ad Est verso la Thailandia attraverso le montagne, in un progetto di rete panasiatico finanziato sia dalla Thailandia che dal Giappone, al momento però sospeso a causa di un conflitto politico regionale.
Percorso interminabile, ma l’esperienza ripaga largamente della lentezza del viaggio. Una rara opportunità per socializzare con il popolo birmano. Sui treni c’è la vita reale.
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