TIMOR-LESTE. La nazione più giovane del pianeta – 1P

Timor in lingua Bahasa Indonesia significa est, pertanto Est-Timor o anche Timor-Leste (in portoghese) sarebbe come dire Est-Est. Isola montuosa nell’estrema periferia orientale dell’arcipelago indonesiano, di fronte all’Australia, di questo lembo di terra solo la parte est è indipendente perché il resto appartiene all’Indonesia che, per oltre un ventennio, si è annessa l’intera isola con una lunga e brutale guerra di occupazione.

Le fonti ufficiali di informazione sono scarse, contraddittorie e non sempre rassicuranti. La stessa Unità di crisi della Farnesina lo descrive come un territorio pericoloso, da evitare se non strettamente necessario. Per certo sono informazioni raccolte nell’immediato dopoguerra, che vanno doverosamente aggiornate, essendo Timor-Leste oggi un paese decisamente tranquillo. Esiste un alto tasso di disoccupazione che impone comunque attenzione, la stessa che occorre spesso quando si viaggia nel mondo.

Il biglietto dell’Air Timor, compagnia di bandiera associata alla Silk Air, si acquista online o all’interno del Changi Airport di Singapore. Si vola su una delle aree più belle del Pianeta: la miriade di isole dell’arcipelago indonesiano viste dall’alto ipnotizza piacevolmente la mente e dispiace quasi di giungere, in 3 ore e mezzo di viaggio, a destinazione. Arrivare a Timor-Leste dalla sfavillante e poliedrica Singapore, dove tutto rasenta la perfezione, l’impatto visivo è enorme e da la percezione di cambiare continente. Si notano subito luci al neon rotte, fili elettrici che pendono, vetri opachi sudici, muri scrostati e le uniformi stinte dei doganieri. Il caseggiato dell’aeroporto di Dili, dedicato all’eroe nazionale Presidente Nicolau Lobato, riflette la dimensione obsoleta e malinconica dei paesi indigenti e, proprio per questo, ricchi di fascino.

È la nazione più giovane del Pianeta, indipendente solo dal 2002, con una realtà ancora tutta da scoprire, fatta di colori accesi, energia vitale, grande umanità e tanti imprevisti. La sua superficie è pari a quella della Calabria, con circa 1.200.000 abitanti, di questi 240mila abitano nella capitale.

Qui ci si arriva solo da Singapore, Bali o Darwin. Nel terminal ci sono un paio di uffici bancari e Timor-Leste non ha ancora una propria moneta. La valuta ufficiale è il dollaro americano, stabilito dalle Nazioni Unite per sostituire la rupia indonesiana. Le banconote sono in US$, mentre i centavos in metallo sono di conio portoghese e sostituiscono i cent americani: 100 centavos equivalgono a 1 dollaro USA. Questo è probabilmente il motivo per il quale, pur essendo Timor-Leste il terzo paese più povero del continente asiatico, dopo Pakistan e Afghanistan, paradossalmente hotel e ristoranti sono cari se paragonati allo standard di vita locale o alla stessa Indonesia.

Condivido il taxi, addobbato in stile haitiano, con una coppia di giovani tedeschi, anch’essi convinti di essere atterrati in un paese carico di insidie e di pericoli. Pure qui si guida a sinistra, in pratica dal Pakistan fino ai confini con l’Australia tutti i paesi seguono il modello inglese. Alloggio nella zona di Moteal, alla guesthouse “Da Terra” di Carlos Vilar, professore universitario che qui ha creato un vivace centro culturale e una comunità di amici straordinaria, di tipo famigliare. A Lucia, la ragazza tuttofare, chiedo se ci sono pericoli e da allora e per tutta la mia permanenza per lei diventerò beffardamente Mr. Dangerous. Daniel, il ricercatore brasiliano che vive qui da ormai due anni non ha mai sentito parlare di ruberie o altre violenze, tant’è vero che i ragazzi lasciano regolarmente sui tavoli esterni cellulari, computer, occhiali da sole e altri oggetti che nessuno ha mai osato toccare. Il vero pericolo sono la malaria e la dengue.

Le lingue ufficiali sono il Tetun, parlato o compreso dalla maggior parte della popolazione e il portoghese, utilizzato negli ambiti finanziario-istituzionali e dalle classi sociali più scolarizzate. In buona parte è compreso anche l’indonesiano, essendo stata la lingua ufficiale durante l’occupazione. L’inglese non è molto usato, ma alla guesthouse di Carlos lo parlano tutti molto bene.

Dili non è dotata di un ufficio turistico e, per orientarmi, mi procuro la piantina della città ricavata da un depliant pubblicitario, l’unica mappa reperibile a Timor-Leste. Purtroppo, molti riferimenti storici e culturali sono stati distrutti dalle milizie indonesiane che, prima di abbandonare il paese nel 1999, hanno messo a ferro e fuoco l’intera nazione. Sarà Carlos & Co. a darmi, di giorno in giorno, la direzione sulle priorità da vedere. Tutto ha inizio con l’arrivo dei portoghesi nel 1512 alla ricerca del legno di sandalo e qui restarono per oltre quattro secoli. Questo è un paese giovane in tutti i sensi: la capitale Dili ha cominciato a fruire dell’energia elettrica nel 1960, mentre le reti dell’acqua, quelle fognarie, nonché le scuole e gli ospedali in cemento, sono stati realizzati negli anni Settanta.

Per prendere confidenza con la città, dal parchetto del Jardim 5 de Mayo, situato tra il lussuoso Hotel Timor e l’ingresso del porto, seguo la piacevole promenade del lungomare, che costeggia la baia di Dili. La parte centrale della passeggiata, ornata da rovi di fiori e grandi alberi tropicali dai nomi esotici, è dominata dall’esteso edificio color bianco-latte del Palazzo del Governo, centro amministrativo di Timor-Leste costruito in epoca coloniale portoghese. Il primo impatto, dal punto di vista del malai (straniero), è decisamente gradevole: tutti salutano con radiosi sorrisi, anche da auto e camion. Ragazze dai modi graziosi chiedono un selfie insieme da mettere su facebook – make me feel like a movie-star – e appena punto la macchina fotografica subito si mettono in posa e ringraziano. Chiedo un paio di informazioni e di colpo, con spontanea semplicità, mi fanno sentire come un loro amico. Si respira l’esaltante atmosfera tipica delle terre di frontiera.

Nella parte ovest della baia chiamata Lecidere, alle spalle del parchetto con la statua della madonna di Fatima, visito il convento delle suore Canossiane, diretto dalla solare madre superiora che parla italiano e subito organizza una foto di gruppo. Timor-Leste e le Filippine sono gli unici paesi Cattolici di tutta l’Asia e questo convento rappresenta un importante presidio italiano nell’isola, in quanto la nostra rappresentanza ufficiale nella regione è costituita dall’Ambasciata a Jakarta (0062-21319 37445).

I microlet (minibus, in prevalenza Suzuki) sono mezzi di trasporto pubblico funzionali e piacevoli, oltre che economici. Ogni linea è facilmente identificabile attraverso un colore e costa 25 cent, a prescindere dalla destinazione, sia vicina che lontana. I mezzi sono tappezzati esternamente da disegni vivaci, coi vetri spesso coperti da adesivi che ne limitano la visibilità, mentre all’interno abbondano ciondoli, finti telefoni, foto, specchietti e pupazzi vari, con preferenza per i bruchi in stoffa e con la musica spesso ad alto volume e di genere caraibico, da far dubitare di essere in Asia. Coi taxisti invece si contratta sempre: uno, due, massimo tre dollari e si va dovunque in città. A Lecidere salgo sul microlet blu numero 12 che segue la litoranea verso est e termina ai piedi della collina di Cristo Rei, ad una decina di chilometri da Dili. Un gruppo di giovani, capitanati da Miranda Soares, sale con me i 600 scalini di Capo Fatucama solo per il semplice piacere di godere della reciproca compagnia. Cordiali, sorridenti e mai invadenti, come lo sono in genere gli orientali. Sulla cima, al centro di una grande piattaforma la gigantesca statua di Cristo Rei svetta in piedi sul mondo e da qui domina l’intera baia di Dili. Costruita dagli indonesiani nel 1996 e rivolta verso Jakarta, viene descritta come una imitazione del Cristo Redentore di Rio de Janeiro e con i suoi 27 metri d’altezza pare sia uno dei più grandi Cristo Rei del mondo. Supportato da due belle spiagge sui versanti opposti del promontorio, sicuramente oggi è l’attrazione più popolare di Dili. La spiaggia che preferisco, alle spalle della statua, è più selvaggia e semi deserta.

Decido di tornare a Dili a piedi, per meglio gustare ogni metro di questo tratto di costa. Già dai primi passi le foto di gruppo o in coppia si moltiplicano, perlopiù richieste da ragazze ma anche da ragazzi. Mi incuriosiscono un paio di interviste fatte da gruppi di universitari per sapere cosa ne penso del loro paese, un’indagine finalizzata a dare alle nuove generazioni strumenti per aprirsi al mondo e lasciarsi alle spalle gli anni bui dell’infanzia.

La baia successiva alla spiaggia di Cristo Rei si chiama Areia Branca, sabbia fine e deserta nei giorni feriali. Con le sue acque limpide e basse mi appare come il posto più piacevole e protetto per fare il bagno. Mi fermo per una breve nuotata nel tratto di mare davanti al Beachside Hotel, gestito da una coppia di australiani che hanno deciso di investire qui il loro futuro. Questa è una nazione giovane, priva di servizi e attrezzature moderne, in cui si respira però una nuova energia capace di immaginare un futuro, tipica dei paesi appena usciti da guerre lunghe ed estenuanti. Siamo agli albori di una nuova epoca, col turismo in rapida espansione, pare infatti che investitori cinesi e tailandesi stiano arrivando in massa in virtù di una moderna colonizzazione. Un altro paradiso che da naturale potrebbe diventare artificiale. Mi considero fortunato ad essere a Timor-Leste in questo periodo storico di transizione, a sandwich tra un passato tormentato da tragedie ed un benessere sociale strisciante che getta un’ombra sul futuro.

A parte i venditori di cocco, di pesce fresco e i ristoranti sul mare, incontrati in questa piacevole camminata fatta sotto un sole cocente, mi ha colpito la lapide in cemento a bordo mare, di un certo Romero morto in un incidente stradale nel 2010, con mozziconi di sigarette accese in sua memoria e lasciate bruciare da amici, parenti e passanti tutt’attorno alla lapide. Questo mi riporta la mente a un rito analogo visto nella vicina Australia dove, al posto delle sigarette, tutt’attorno la lapide posta sul ciglio della strada c’erano lattine e bottiglie vuote di birra. In entrambi i casi, sia i mozziconi di sigarette che i contenitori d’alcool appaiono come simboli dei piaceri della vita lasciati a ricordo di chi non c’è più. Poco più avanti, resto colpito anche dalle anziane signore che dividono per misura, colore e forma, una sterminata distesa di pietruzze e sassi corallini da riempirne tanti sacchi di carta. Non ho chiesto nulla, ma la presenza di croci mi suggerisce che siano utilizzati nei cimiteri sulle tombe. Poco dopo, faccio un’altra curiosa scoperta che non avrei fatto se fossi tornato in microlet: vedo un cancello aperto su una proprietà apparentemente disabitata, incuriosito entro per dare un occhiata e, tra le erbacce, vedo cinque antichi cannoni portoghesi accatastati al suolo tra i rifiuti, in un angolo del cortile. Un reperto storico di gran valore che qui però non ha mercato, considerato un peso superfluo.

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