TIMOR-LESTE. La nazione più giovane del pianeta – Storia e cultura – 2P

A Dili gli edifici coloniali più importanti, rimasti in piedi dopo la guerra, si trovano all’inizio di Rua 30 de Agosto, sul lato est del palazzo del governo, come l’Ambasciata del Portogallo e la Casa Europa di fronte, costruita nel 1627 e chiamata così perché ospitava gli uffici delle delegazioni europee durante la guerra civile.

Assolutamente da non perdere la visita al Museo della Resistenza, in Rua Formosa accanto all’università, un must per contestualizzare lo spirito della nazione, dove incontro il portoghese Joao Crisòstomo, appassionato di storia timorese. Dopo avermi mostrato una caterva di curiosi articoli e fotografie di quando era maggiordomo di Jacqueline Kennedy ai tempi di Onassis, mi conduce nell’ufficio di Hamar Alves, solerte e gentile direttore di questa straordinaria galleria storica. Insieme facciamo il giro delle sale che raccontano in modo cronologico, anno per anno, le tappe salienti del conflitto e del movimento di liberazione Fretilin (Frente Revolucionària do Timor-Leste Independente), creato nel 1974 allo scopo di ottenere l’indipendenza dal Portogallo. Solo in seguito passò alla lotta armata contro il regime di Suharto e l’occupazione indonesiana. Molti dei fondatori provenivano dalla casta dei Liurai, l’antica nobiltà della Timor precoloniale, colti ed abili nel governare. L’anno seguente, fomentata dai servizi segreti indonesiani (Bakin), la contesa tra partiti pro e contro Indonesia sfociò in una guerra civile che lasciò circa duemila morti per le strade di Dili. Il Fretilin ebbe la meglio e il 28 novembre 1975 proclamò la nascita della Repubblica Democratica di Timor Est, con il fondatore del movimento Francisco Xavier do Amaral, detto anche “Abo (nonno) Xavier”, come primo Presidente. Nove giorni dopo, il 7 dicembre 1975, le truppe indonesiane entravano a Dili nonostante il rifiuto dell’Onu e cominciarono subito a compiere stragi senza precedenti sull’isola. Memorabile l’ultimo disperato appello di Radio Dili al mondo: “Ci uccideranno tutti. Ripetiamo, ci uccideranno tutti. Vi scongiuriamo fate qualcosa per fermare l’invasione”.

La paura di una Timor-Leste marxista fu vista come il pretesto al sostegno dei governi statunitense e australiano all’invasione indonesiana, mentre la vera ragione pare sia nella disputa di acque territoriali ricche di petrolio. Si resero così “corresponsabili” di una politica del terrore che causò stragi in tutto il paese, migliaia di morti e centinaia di paesi e villaggi distrutti dai bombardamenti al napalm. Tristemente noto il massacro al cimitero di Santa Cruz, avvenuto il 12 novembre 1991, con oltre duecento manifestanti inermi uccisi sul posto. Tuttavia, la visita di Papa Giovanni Paolo II nel 1989, l’assegnazione del premio Nobel per la Pace ai vescovi Carlos Ximenes Belo e José Horta nel 1996 e l’anno successivo la visita del presidente sudafricano Nelson Mandela al leader del Fretilin, Xanana Gusmao, quando era in carcere, sono tutti atti che hanno portato ad un aumento della pressione internazionale per l’indipendenza. Nonostante le minacce di morte delle milizie addestrate dall’Indonesia, il 98% della popolazione di Timor si presentò alle urne per votare sul referendum che ne sancì l’indipendenza.

Era il 30 agosto 1999. Gli squadroni della morte delle milizie indonesiane scatenarono una nuova e feroce ondata di violenza inarrestabile, uccidendo per strada tutti quelli sospettati di avere votato a favore dell’indipendenza, senza risparmiare nessuno, a cominciare da sacerdoti, suore e persone delle varie organizzazioni umanitarie. Un genocidio con centinaia e centinaia di morti e decine di migliaia di persone fatte salire su automezzi militari e scomparse nel nulla. Quando il 22 settembre le truppe australiane inviate dall’Onu entrarono a Dili trovarono un paese distrutto, completamente devastato. Alle forze Interfet (International Force for East Timor), senza le quali ben difficilmente l’Indonesia avrebbe accettato la missione di pace, partecipò egregiamente anche l’Italia. Xanana Gusmao venne così liberato e il 20 maggio del 2002 diventa presidente di uno stato sovrano, finalmente completamente indipendente. Con la nascita della nazione, da movimento indipendentista il Fretilin si è trasformato in partito politico. Ciò nonostante la ferita è ancora fresca, lo si capisce bene parlando con la gente: il paese è ancora molto legato alla parola “guerra” … e al contempo sono costretti a fare buon viso a cattiva sorte poiché, a causa della posizione geografica, gran parte dei loro commerci e tant’altro dipendono dall’Indonesia. Resta comunque difficile dimenticare un olocausto di oltre 200 mila morti, quasi un quinto dell’intera popolazione.

Proseguo nel mio itinerario da turismo “dark”, consigliato però da tutti, recandomi nel quartiere di Balide per visitare l’ex carcere di Comarca, che risale al periodo coloniale ed era usato dagli indonesiani per torturare i prigionieri timoresi favorevoli all’indipendenza. Nel cortile oltre la cancellata d’ingresso trovo una piccola grotta ben curata tra il verde, con la statua della Madonna in stile Lourdes e la scritta “In memoria dei prigionieri politici”. Negli spazi all’interno dell’edificio, una lunga serie di pannelli descrive in successione cronologica, come al Museo della Resistenza, le drammatiche vicende dell’occupazione indonesiana, dal 1975 al 1999, in rapporto alla prigionia ed alle sevizie. Terribilmente drammatica la vista della sedia in ferro delle torture, dell’elenco dei reclusi e delle otto famigerate “celle scure”, prive di finestre, lasciate nel loro stato originale. In particolare quella con scritto sul muro: “10/8/1976 – Nesta ‘cela da morte’ estiveram Octavio Jordàu de Araujo, Justino Mota, Julio Alfako”, circondata da altri graffiti analoghi. Il giovane Mota era un noto attivista del partito Fretilin. Sulla via del ritorno resto colpito pure dalla quantità di fedeli intenti ad assistere alla messa dentro e fuori la Cattedrale Morael, di fronte al massiccio monumento dedicato ai caduti nel cimitero di Santa Cruz.

Cambio decisamene atmosfera alla festa per la “giornata nazionale del Portogallo” che ha luogo al Timor Plaza, l’unico centro commerciale moderno di Dili. Si svolge al quinto piano, nella terrazza all’aperto dello Sky Bar, con musica dal vivo e una marea di impiegati occidentali, perlopiù portoghesi, che bevono, mangiano e ballano fin oltre mezzanotte. Il nostro drappello, Carlos e tutta la compagnia di lavoranti e clienti della guesthouse, conta una decina di persone già legate da un piacevole ed evidente spirito di corpo. Tra un sorso e l’altro, una signora timorese residente in Australia non smette di imprecare contro il servizio sanitario locale, sostenuto da giovani medici cubani privi di mezzi e di esperienza: “Mio padre è morto per una semplice infezione che in Australia avrebbero curato senza problemi”. Carlos rincara la dose, sostenendo che all’ospedale ti danno la stessa medicina per ogni cosa, sia che tu abbia un infarto o che ti rompa una gamba. Ovviamente chi se lo può permettere, vola a Darwin o a Singapore.

Il giorno seguente supero il Timor Plaza verso l’aeroporto e subito dopo il Comoro Bridge, sulla destra trovo il singolare ingresso al villaggio Arte Moris (Vivere l’Arte in lingua tetun), la prima scuola e associazione artistica e centro culturale di Timor-Leste fondata a seguito della violenta occupazione indonesiana. Il suo obiettivo principale era quello di utilizzare l’arte come elemento di ricostruzione psicologica e sociale di un paese devastato dalla guerra, con particolare attenzione ai giovani. Nel vasto complesso sculture e opere d’arte sono disseminate dovunque, nel giardino e nelle gallerie, in cui prevale lo stile surrealista ispirato ad una filosofia rivoluzionaria e pacifista che spazia dal genere rasta di Bob Marley a Che Guevara e Gandhi, con l’epigrafe: “Nessun Dio è più in alto della Verità” e “One Love” o “Make art not war”. Il suo rappresentante più celebre è Tony Amaral, diplomato alla prestigiosa National Art School di Sidney. Molti studenti abitano qui, sperimentano e si allenano con materiali, mezzi e strumenti diversi nelle varie espressioni artistiche, compreso la musica funky. In una stanza sta provando il gruppo denominato Kalar, con la voce di Otopsy e l’amico Ongky al basso. Notevole e stimolante il senso di libera creatività che sprigiona questo luogo.

Carlos e Co. mi suggeriscono ora di andare a visitare i mercati. A pochi passi dalla guesthouse c’è il più noto di tutti, il Tais Market, che si traduce in un modesto ma ordinato spazio dedicato a casette in legno e lamiera ricolme di manufatti d’artigianato locale di buona qualità. In primis il coloratissimo panno tais, un metodo di tessitura tradizionale creato dalle donne di Timor-Leste e considerato patrimonio della cultura nazionale. Viene usato come ornamento cerimoniale, in segno di rispetto verso gli ospiti, ma anche come abbigliamento di tutti i giorni. Oltre a tessuti, borse, zainetti e souvenir vari, qui si trovano anche preziosi legni indigeni scolpiti, originali disegni di collane, braccialetti e gioielleria in metallo proveniente delle diverse province del paese. L’impostazione di questo mercato è rivolta a una clientela di turisti, apprezzo il fatto che nessuno assilla o insiste per vendere e non alzano i prezzi. Per vedere un mercato decisamente meno formale, con un paio di microlet raggiungo l’animato e pittoresco Mercado Taibesi, nella periferia sud orientale di Dili.

Frutta, verdura e spezie di ogni tipo, forma e colore, comprese le corroboranti noci di betel, quelle che corrodono i denti e lasciano la bocca color vermiglio. Mi perdo a esplorare le stradine del quartiere attorno al mercato abitato da kaim pribumi, indigeni dell’entroterra, intenti nel loro variegato scandire del tempo, trainando carretti con maialini in gabbia, vendendo galli da combattimento (prezzi da 10 a 50 dollari) o cuccioli di cani, mentre i più giovani si sfidano giocando al pallone o a stecca su polverosi biliardi all’aperto. A sera, con Carlos e il team di amici della guesthouse al completo, ci rechiamo al mercato notturno del pesce di Pantai Kelapa, sull’argine del Rio Comoro in secca. Alle spalle di una bancarella, con poca spesa ci facciamo una scorpacciata di spiedini di polipo alla griglia.

Dei miei 42 giorni di permanenza, uno l’ho vissuto in un modo che credo valga la pena raccontare per mettere in guardia altri viaggiatori onde evitare di irritarsi perdendo tempo inutilmente. Scopro di possedere delle banconote in dollari americani che nessuno accetta, sia i negozianti che le banche, perché sopra hanno una data per loro inaffidabile. Questo mi obbliga a cambiare degli euro che però la stessa banca centrale non accetta. Mi indicano un’altra banca, dove convinco la guardia a farmi passare davanti ad una fila chilometrica che si estende anche sulla strada sotto a un sole cocente. Una volta alla cassa per 50 euro mi danno 20 dollari. Perplesso dico: “Scusi, c’è un errore, io le ho dato 50 euro e l’euro vale più del dollaro”. Nessun errore, nella ricevuta leggo un lungo elenco di trattenute e commissioni per un totale di US$ 35, pura follia .. cancello tutto e riprendo gli euro. Mi consigliano di fare il giro delle agenzie Western Union e finalmente, già nel pomeriggio, trovo quella che mi cambia 100 euro alla pari col dollaro, così ci rimetto solo 10 euro, senza ovviamente alcuna ricevuta.

Al ritorno, lungo Avenida Nicolau Lobato, mi trovo di fronte al noto Bar Tower, preferito dai portoghesi e indicato come unico luogo di celata prostituzione. È pomeriggio, il posto è deserto ma vedo una grande sala con tavoli e palco per musica dal vivo. Scatto alcune foto e subito si presenta la direttrice, Cidalia Rangel, la quale mi informa che il locale è chiuso per la morte del padre del titolare. Saputo che in qualità di reporter vorrei conoscere meglio la vita notturna di Dili, mi fa accomodare nel suo ufficio e gentilmente mi racconta i locali della città: “Esplanada, al giovedì live music fino all’una di notte. È anche un hotel, con bar sulla spiaggia frequentato da artisti e timoresi benestanti; Timor Plaza, al venerdì musica dal vivo allo Sky Bar del quinto piano; Queen Bar, al venerdì e sabato con musica da ballo, vicino all’ambasciata portoghese, ma lo sconsiglia agli stranieri perché quando i timoresi bevono si rischia la rissa; Casa da Musica al sabato, all’ultimo piano nel blocco del Burger King, night club-disco per ballare con dj; Club 88, genere pub con biliardo fino a notte fonda, dietro al supermercato portoghese Pateo”.

E io aggiungo il Moby’s Bar, sull’Avenida Marginal del lungomare, frequentato da australiani, con musica sparata a tutto volume e birra a fiumi. Mi auguro che la vicinanza con l’Australia non porti a degli eccessi come sta succedendo da tempo a Kuta Beach di Bali. Carlos conferma la lista ma tiene a precisare che il Tower non è chiuso per lutto ma per altre ragioni. È chiaro che non c’è una gran scelta di luoghi di svago poiché i timoresi non escono tanto la sera, sono ancora legati alla vita famigliare, oltre che condizionati dalle scarse risorse economiche. Non ci sono bar o osteria che, come da noi, favoriscono la vita sociale. Infatti, all’imbrunire, molte coppiette si radunano sul muretto del lungomare per gustare il tramonto con la cornice di barche a vela ancorate in rada. Un’idilliaca visione che riporta ai film in bianco e nero degli anni Cinquanta.

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