Good Morning Vietnam, 50 anni dopo
Quando salgo sull’aereo diretto ad Hanoi sono certo che troverò un Vietnam molto diverso da quello che avevo visto nel 1969.
Avevo poco più di vent’anni e, quando entrai a Saigon, il Vietnam era invischiato in una guerra fratricida nella quale la presenza dell’esercito americano aveva il compito di frenare l’avanzata comunista presente nel Vietnam del Nord. Il paese era stato diviso in due dal 1954: nel Nord vigeva una Repubblica Popolare guidata dal filosovietico Ho Chi Minh mentre il Sud era stato affidato a Ngo Dinh Diem, un esponente della casta militare statunitense che instaurò una dittatura militare filoamericana. Eravamo in piena guerra fredda e le due superpotenze, USA e URSS, si fronteggiavano su più fronti.
Accanto a me in aereo è seduto un quarantenne vietnamita di nome Van che afferma di essere figlio di un ex Vietcong, così venivano chiamati i guerriglieri del Nord, il quale racconta che nel battaglione di suo padre erano in 400 e ne sopravvissero meno di 80. La conversazione con Van mi restituisce lampi di memoria di quella Saigon di mezzo secolo fa… quando all’arrivo all’aeroporto vidi aerei pronti al decollo con grosse bombe sotto le ali ed un plotone di soldati americani di ritorno da una missione, sporchi, esausti, bivaccati al suolo. Solo uno, raggiante di gioia perché a giorni sarebbe tornato in patria, si avvicinò per dirci: “Quando muoio sicuramente andrò in paradiso perché all’inferno ci sono già stato”.
La guerra era nell’aria, si leggeva nel grande spiegamento di forze militari, nel viavai di aerei ed elicotteri e nei movimenti di armamenti.
Girai tutta Cholon per ore con i miei due amici e compagni di viaggio in cerca di un hotel economico, specificando sempre: “Siamo italiani, non americani”. Ne visitammo circa 30 e tutti rifiutavano di aiutarci per la medesima ragione: “Paura maledetta”. Nessuno amava gli americani e neppure i loro simili come noi. Darci alloggio avrebbe potuto creare conflitti nel quartiere o provocare qualche atto terroristico. Tuttavia, riuscimmo a rimediamo un letto matrimoniale per tre all’Hotel Hawaii.
Cholon era il vasto quartiere cinese di Saigon, il più bombardato e il meno amato dai Vietcong che si trovavano già a 6 miglia da dove eravamo in quel momento. Ovunque postazioni con mitraglie pesanti, camionette armate e reti che recingevano molti edifici a protezione anti-bomba. Su quel caos incombeva l’odore nauseabondo e dolciastro di spazzatura che ostruiva le narici. Saigon sembrava abitata da gente animata solo dall’ingordigia. Atmosfera di rassegnazione e indifferenza della popolazione, in balia di un governo corrotto, alleato e colluso con una potenza occidentale distante e sconosciuta.
Ovunque si respirava miseria, diffidenza e corruzione. Pur nella sua opacità e apatia, questa gente odiava gli americani quanto quella di Hanoi perché ritenuti comunque invasori.
Nonostante l’atmosfera pesante e tesa, che caratterizzava gran parte della città, al contrario, il centro brulicava e pulsava, animato dall’istinto di conservazione e dalla ricerca di una improbabile normalità in cui il denaro pareva rappresentare il veicolo per comunicare, scambiare e dare un senso al quotidiano nel quale la vita e la morte sembravano rappresentare solo una fatalità. Ci sarebbe piaciuto andare oltre la barricata, ad Hanoi, per conoscere quei contadini che avevano già sconfitto la Francia e ora tenevano testa alla più grande potenza mondiale.
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