Per le vie del Cairo – Da Piazza Tahrir a Talat Harb Square fino alla Moschea di al-Husayn

Mentre al Rich Cafè di piazza Tahrir, in angolo con Mahmud Street, sorseggiamo una calda bevanda chiamata helbe, una sorta di camomilla mista a tè, decidiamo di chiedere qui al Cairo più visti possibili di Paesi africani, in modo da aspettare anche il saldo dalla Citybank sui traveller’s cheque smarriti da Aldo. In questo bar fanno i frullati di banana usando il latte e non lo sciroppo. Buono anche il loro pasticciato di “macaroni”. Al contempo, mentre siamo seduti a mangiare, un calzolaio ambulante che gira per i bar in pochi minuti mette ai nostri sandali i tacchi in gomma e le suole in caucciù per poche piastre. In Italia tale veloce sincronismo sarebbe impossibile!

Un signore sente che parliamo italiano e chiede di sedersi con noi al tavolo, si chiama Seif e si presenta come rappresentante internazionale per la ceramica Piemme di Milano. In breve ci spiega che è innamoratissimo di una bella ragazza di Reggio Emilia di nome Sabrina e, pensando che noi stiamo tornando a casa, ci dà il numero di telefono per un saluto a suo nome. Noi però non stiamo tornando ma è comunque interessante constatare la varietà di suggerimenti e suggestioni che si provoca nelle persone quando si viaggia.

Anche questa sera, la quinta al Cairo, finiamo per andare a mangiare una pizza all’Hilton e di nuovo si entra al Casinò dell’hotel, dove questa volta Aldo perde 200 dollari ed io 50. Andiamo a letto dopo le 4 del mattino, nessuna inquietudine per le perdite ma questo genere di approccio al viaggio va modificato.

Al nostro sesto giorno al Cairo, mercoledì 17 gennaio, ci alziamo distrutti alle 10,30. Malgrado l’ora tarda riusciamo a portare documenti e foto all’Ambasciata del Sudan ed ottenere il visto prima che chiuda. Ci rechiamo poi in piazza Tahrir, al piano terra dell’imponente Mogamma Government Building per fare il vaccino della febbre gialla a pagamento e, a seguire, entriamo all’ufficio postale per acquistare francobolli, lettere e cartoline da inviare ad amici e parenti. All’imbrunire torniamo a cenare nella pizzeria italiana all’Hilton ma adesso trovo sia troppo cara. Sto spendendo troppo, decido così di tornare in camera a fissare sul taccuino un programma di marcia e cominciare a fare più attenzione alle spese, mentre Aldo al contrario sceglie di tornare al Casinò dove perde altri 200 dollari. Nel viaggio, in genere i primi giorni sono i più dispendiosi perché l’inizio di un viaggio è sempre liberatorio e senza freni ma per fortuna, giorno dopo giorno, si entra nella dimensione del luogo dove la gestione del denaro acquista sempre più valore. Lentamente ci si adegua alla realtà del contesto in cui ci muoviamo, poiché non siamo in vacanza ma in viaggio.

Il giorno seguente, nell’ora di pranzo ci sediamo per un cappuccino con dolce nella grande pasticceria in Kel-Nil, un bel locale caldo vicino a Talat Harb Square. Un attimo di relax per mettere ordine ad un intreccio infinito di moduli, carte, documenti e foto da portare alle varie ambasciate dei Paesi che pensiamo di raggiungere in seguito, alcune delle quali non vogliono i turisti. Tra queste quella dello Yemen del Sud, anche se abbiamo fatto ugualmente domanda che verrà inviata a Aden e ci faranno avere una risposta in Sudan, nella loro sede di Khartum.

Diamo un’occhiata all’ingresso del museo egizio ma c’è una fila chilometrica per entrare; pertanto, rinviamo la visita ad un momento meno affollato. Entriamo però nella libreria del museo dove conosciamo Alcide e Paolo, due ragazzi di Roma che fanno il Liceo Scientifico al Cairo, i quali ci consigliano di andare all’Istituto Italiano di Cultura, importante punto di riferimento per la nutrita comunità di connazionali residenti in Egitto. Aggiungono di farci dare l’elenco delle nazioni nel mondo dove esistono scuole pubbliche italiane, nelle quali chiunque può iscriversi liberamente come fosse in Italia e, secondo loro, con qualche vantaggio: “Ad esempio, il nostro Liceo in Italia dura cinque anni, qui invece ti diplomi dopo quattro”.

Ci accompagnano in un negozio a pochi passi dal museo, da un signore che al mercato nero offre il cambio di valuta migliore, 0.78 piastre per ogni dollaro, ovvero 9 piastre in più della banca. Tutti i commercianti cercano di farsi un gruzzolo in dollari americani. Vende anche hashish ma a noi non interessa. Insieme andiamo poi al Zeina, un ristorantino da viaggiatori freak vicino al National Hotel. Pollo discreto, il resto è immangiabile!

Continuiamo con le informazioni per pianificare il nostro viaggio verso Sud. Alla stazione dei treni il diretto per Luxor parte ogni giorno alle 19 ed arriva alle 6 del mattino. Le cuccette sono fornite di aria condizionata e fanno lo sconto agli studenti. Occorre fare la prenotazione qualche giorno prima. Per continuare da Luxor ad Aswan ci suggeriscono di informarci sul posto; tuttavia, l’impiegato riesce a darci notizie sui barconi che attraversano il lago Nasser da Aswan a Wadi Alfa in Sudan. Per le escursioni nei dintorni, il treno che conduce a Port Said impiega 5 ore e dopo per Suez ci sono solo bus di linea e taxi collettivi che seguono la strada parallela al canale.

Passeggiando sul lungofiume alle spalle dell’Hilton, due ragazze appoggiate al parapetto ci fanno gli occhi dolci. Le donne arabe comunicano tantissimo con lo sguardo e questi ammiccamenti sono un chiaro invito a fermarci per due chiacchiere. Sono studentesse animate solo dalla curiosità, senza altri motivi, tuttavia, arrivano subito due anziani poliziotti in borghese per chiedere i documenti a tutti e invitare le ragazze ad allontanarsi. La presenza della polizia è dovunque, un presidio del territorio invisibile ma costante.

Sabato 20 gennaio. Prima sosta del giorno dal sarto nei pressi del nostro hotel. Aldo ha fatto accorciare due paia di pantaloni. Il sarto lo serve subito, interrompendo tutto ciò che sta facendo. Un po’ perché avverte l’impazienza di Aldo e un po’ perché l’urgenza implica un costo più oneroso.

Entriamo poi nel negozio del fotografo per farci una dozzina di foto tessera che serviranno per i visti. Anche qui per la normale consegna delle foto occorre aspettare addirittura dai 4 ai 7 giorni ma insistendo questa sera alle 21 sono pronte.

Alle 11 siamo di nuovo al Consolato italiano dalla signora Grimaldi, persona molto formale che si dice un po’ seccata a causa di una nuova legge approvata da tutti i Paesi: per ottenere il visto bisogna prima presentare il benestare scritto dal console del proprio Paese, un modulo da compilare che si ottiene comunque senza difficoltà. La Grimaldi ci fa quello per la Somalia e per lo Yemen del Nord. Quello dell’Arabia lo abbiamo. Non ha voluto farci quello dello Yemen del Sud, adducendo: “Due permessi per oggi sono già troppi”. Lo chiederemo a Khartum. L’impressione è che siamo vestiti in modo troppo semplice ed informale “per avere delle pretese”. La Grimaldi è abituata allo stile dei turisti mentre noi siamo viaggiatori.

Spiega che i moduli richiesti non può farli subito, dobbiamo ripassare alle 15 perché gli è sparito il timbro del consolato e deve andare a farli timbrare all’ambasciata che dista 5 chilometri. È visibilmente contrariata per quest’altro disguido e lo esprime con domande sibilline e indiscrete, da funzionaria piena di pregiudizi: “Che mestiere fate? State attenti alla galera”. È per lei inconcepibile che delle semplici persone vadano in giro per il mondo, senza apparente scopo. In Africa forse la presenza di stranieri viene legittimata dagli affari, dal lavoro, dagli studi o dalla vacanza. Il viaggio fine a se stesso viene mal considerato perché inusuale.

È evidente che in questi Paesi il modo di vestire semplice forse viene qualificato come sospetto. Dopo queste considerazioni, ad Aldo viene l’idea di comprarsi un vestito completo con gilè, camicia e cravatta per presentarsi elegante alla Citybank allo scopo di ottenere rapidamente il saldo dei traveller’s cheque. Idea non condivisa, utile per uffici e ambasciate ma scomoda per chi viaggia con uno zaino.

Pomeriggio libero da impegni burocratici e, curiosando in giro, finiamo nel grande negozio di borse e borsoni in pelle al 29 di el-Said Street, la via che da Talat Harb Square va verso Tahrir Square. Il proprietario, Awad, tiene subito a precisare che si tratta di pellame di cammello: “Molto più pregiato di quello di bue”. Probabilmente intende dromedario. Sono ben fatte, il prezzo è buono e in Italia c’è molta richiesta. Ne esaminiamo tantissime e alla fine scegliamo quattro modelli, quelli senza bassorilievi o ricami per turisti. Può spedire solo pacchi da 10 kg alla volta, oppure a dargli più indirizzi spedisce più pacchi insieme. Questo perché entro tale peso Awad non paga le tasse, anzi riceve il 25% di premio da governo per l’esportazione, almeno così dice. Le fatture le farebbe dimezzate per farmi pagare meno di dogana in Italia, scrivendo che sono regali. Il sistema di pagamento sarebbe sulla fiducia, ovvero io gli pago la merce, lui mi fa una ricevuta, poi ottiene il permesso di esportare e mi spedisce i pacchi via nave che impiega due mesi. Dice che non può truffarmi perché con la ricevuta posso scrivere al governo e gli fanno chiudere il negozio. Inoltre, con la mano sul cuore aggiunge: “Non è mio interesse”. C’è da credergli? Preferisco fargli l’ordine dall’Italia con una normale apertura di credito bancaria: quando ritiro la merce, lui ottiene la somma.

Riprendiamo la marcia che ci vede ogni giorno camminare per ore nelle vie del Cairo e, casualmente, nel tardo pomeriggio finiamo seduti in panchina a rilassarci nella serena atmosfera che domina il piazzale di fronte alla moschea di al-Husayn, non distante dal suq di Khan el-Khalili. Impariamo così che questa moschea prende il nome dal nipote di Maometto ed è considerata uno dei più importanti santuari islamici di tutto l’Egitto, voluta nel 1154 dagli Imam fatimidi, la dinastia sciita ismaelita più importante di tutta la storia dell’Islam.

Aldo fatica ad addormentarsi la notte, entriamo così in una farmacia in Mohmoud Street, vicinissima al consolato italiano, per chiedere un consiglio al riguardo. Il proprietario, dott. Fatma Badawi, parla italiano e si dimostra subito estremamente disponibile, contentissimo di fare la nostra amicizia. Dice che la sua auto la sta guidando il fratello che ora è in giro nel deserto, tra dieci giorni quando torna se siamo ancora al Cairo ci porta in giro per il Sinai a vedere i luoghi più strani, fuori dalle rotte turistiche. Per il sonno consegna ad Aldo una scatola di Algaphan, un analgesico molto forte, la usano anche gli egiziani per stordirsi.

Nonostante le resistenze mentali, chiudiamo di nuovo la serata al Casinò dell’Hilton, dove Aldo vinceva prima 300 dollari poi ridotti a 100. “Un ambiente che ti porta fuori dalla vita reale, dove il denaro è talmente fluido da perdere di valore”, così mi dice la guardia privata dell’Hilton, un ragazzo di 25 anni armato di revolver, che lamenta di guadagnare soltanto 30 pound al mese, meno di un dollaro e mezzo al giorno. Un viaggiatore svizzero al Casinò racconta di essere appena tornato da Addis Abeba, una città su di un altopiano, molto bella, da visitare assolutamente. Al ritorno in hotel valutiamo decine di ipotesi di itinerari possibili, nel caso ci venga impedito di entrare in Paesi in guerra o per motivi politici.

Domenica 21 gennaio, finalmente è il giorno tanto atteso, in cui è tornato il console somalo e possiamo andare a tentare la fortuna nell’incognita del visto, essendo di fatto proibito l’ingresso in Somalia per motivi turistici. Per me è molto importante riuscire ad andarvi, ho sempre desiderato vedere di persona la bella e decantata ex colonia italiana, dove i locali parlano la nostra lingua. Il consolato si trova in Sannan Street 28, dietro al museo dell’agricoltura, ci dicono subito e in perfetto italiano: “La Somalia è un Paese in guerra e generalmente non concediamo visti turistici”, ma l’atmosfera che si respira nel consolato è quella di gente disponibile, tutti gentilissimi e infatti, meraviglia delle meraviglie, ci concedono il visto. Dici loro che in Italia ho un negozio di artigianato esotico e potrei fare acquisti in Somalia così, senza tanti problemi, hanno aggiunto “per turismo e commercio”.

Un giovane impiegato molto amichevole che conosce Modena ci dà infinite indicazioni sulle cose da fare e vedere a Mogadiscio e in tutta la Somalia, mentre un altro signore ci racconta l’atmosfera politica che si respira ora nel Paese: “Dei russi per fortuna ce ne siamo liberati, sono dei traditori. Finalmente hanno mostrato il loro vero volto di nuovi imperialisti interessati solo al potere”. E aggiunge. “Aiutano e pretendono, mentre i cinesi che sono adesso in Somalia non impongono o ricattano come facevano i russi ma aiutano per solidarietà e convenienza, comunque più sani e sinceri dei russi”. Io aggiungerei anche più scaltri e intelligenti. Questo signore davvero odia i russi: “Ora che i Sovietici si sono messi con gli etiopi contro gli eritrei hanno mostrato chi sono veramente”. E termina con una nota di rimprovero: “Noi siamo in guerra con l’Etiopia per colpa di voi occidentali. Nell’Ogaden la gente è somala reclusa da etiopi, i confini sono stati tracciati dagli inglesi ed hanno diviso i popoli”.

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