INDIA: Il linciaggio
Appena qualche decade fa partivamo dal Bar Grand’Italia di Modena a bordo di una Fiat 500 (del ’60) diretti all’isola di Bali, in Indonesia. Era l’11 giugno 1969. L’equipaggio era composto da Adriano Malavasi, Paolo Fiorani e dal sottoscritto, tutti ventenni. Completammo il viaggio di 50.000 chilometri in 6 mesi esatti: la vecchia e ormai squinternata 500 entrò nuovamente a Modena la sera dell’11 dicembre, spense il motore e fu per sempre, non ripartì mai più. Aveva portato a termine l’ultimo glorioso atto della sua generosa esistenza, che l’aveva vista percorrere le strade di Jugoslavia, Bulgaria, Turchia, Iran (mar Caspio e deserto del nord), Afganistan, Pakistan, India, Nepal e Bengala. Lasciata nel garage del Console italiano a Calcutta, semplicemente per la mancanza di vie di comunicazione percorribili in auto, noi tre continuammo con mezzi di fortuna alla volta di Birmania, Tailandia, Malaysia, Singapore, Sumatra, Giava e Bali, con capolinea a Dempasar. Nel ritorno, dopo Vietnam, Cambogia, Tailandia e nuovamente in India con l’auto, percorremmo la via che attraversa il sud del Pakistan (Wiziristan), l’Iran meridionale, Iraq, Giordania, Libano, Siria, Turchia, Grecia, Jugoslavia, (via Macedonia, Kosovo, Montenegro, Croazia e Slovenia) fino a giungere in Italia again, dove la stradale ci accolse con una multa salatissima per la struttura anomala del mezzo, giudicata “irregolare”. Nell’ultimo tratto rimanemmo 6 giorni senza dormire, da Amman a Modena, costretti a spingere continuamente la macchina nella neve, senza più le scarpe coi piedi fasciati da garze avvolte da calzini estivi. In pratica, eravamo nelle stesse condizioni della nostra autovettura. I problemi da risolvere lungo il tragitto furono tantissimi, anche economici, ma nessuno mise in forse lo spirito dell’impresa. Il pianale dell’auto era già marcito nel viaggio d’andata e sostituendo con canne di bambù da dove entrava abbondantemente acqua delle piogge monsoniche, la portiera di destra era stata legata col fil di ferro, perché ‘insaccatasi’ a causa di un dosso percorso troppo velocemente; il deflettore di destra, mandando in briciole da un camion indiano passato a pochi millimetri, era stato ricostruito in compensato; il blocco del sostegno motore si era spezzato ed era stato ricostruito artigianalmente, a colpi di lima, da volenterosi meccanici di Calcutta; la rottura della balestra anteriore infine ci obbligò a camminare per trenta chilometri nel deserto, dove fummo arrestati dai soldati iracheni per sospetto spionaggio, e tanti altri inconvenienti di ogni genere, quasi quotidiani. Poi ci furono le infezioni, la quarantena sull’isola di St. John, le coliche di reni nel deserto, i tentativi di rapina, i predoni, le feroci liti sui prezzi, al guerra del Vietam e le bombe in Cisgiordania, ma soprattutto i pericolosi equivoci dettati dall’inesperienza, che ci fecero rischiare più volte la vita e persino un linciaggio. Un automobile tanto piccola, mai vista prima, stimolava spesso la curiosità e l’ilarità degli indigeni: in Iran, al nostro passaggio si divertivano nel bersagliarci con sassi ed è capitato che una marea di gente sollevasse la macchina con noi dentro e ci buttasse nel fosso, così per ridere! La polizia è intervenuta più volte a randellare la nostra difesa.
Continua su Wall Street International Magazine