Dalla Somalia al Kenya

Siamo al Lido, la zona balneare di Mogadiscio, a giocare l’ennesima partita a calcio Italia contro Somalia in un tratto di spiaggia invasa da alghe e catrame. Max, il portiere dei somali, è in vena di complimenti: “Voi giocate e scherzate con noi, gli altri bianchi non sono tutti così”. Siamo in sei a formare la nostra squadra, il motivo di tanta disponibilità è ovvio, in particolare Aldo ed io siamo gli unici turisti presenti in Somalia mentre gli altri sono impiegati, insegnanti, operai e non hanno molto tempo per giocare. Fabio, il professore di geologia, fa l’elenco delle principali imprese straniere presenti nel Paese e dei rispettivi incarichi: “Gli italiani fanno strade e formano insegnanti universitari, gli inglesi sono addetti all’istruzione di medici, i tedeschi agli impianti tipografici, i danesi alla costruzione del porto di Berbera, gli americani all’agricoltura e alle fattorie e i cinesi alle strade come gli italiani. Le infrastrutture cinesi sono più a buon mercato ma si deteriorano in fretta”. E arriva al punto: “Voi siete gli unici senza impegni di lavoro”. Quando diciamo che siamo turisti, tutti scoppiano a ridere con benevolenza.

Fabio è un accanito fumatore e lamenta che in Somalia si fatica a trovare sia le sigarette che i fiammiferi. Adesso fuma le Ubax, sigarette fatte coi fiori simili alle Cretex indonesiane, dal sapore dolciastro, ed evita le Benson che costano tre volte tanto. Entriamo a bere un caffè al Circolo italiano dove i presenti stanno ancora commentando il tragico episodio accaduto al porto tre giorni prima: “Due somali hanno rubato dei fasci di legna, li hanno buttati in acqua per trascinarli a nuoto ma sono stati attaccati e uccisi da squali”. Gli attacchi di squali a poche bracciate dalla riva sono molto frequenti lungo tutta la costa somala e oltre.

Dopo le 15 inizia l’alta marea, con i pescicani che si fanno più minacciosi, e lentamente la spiaggia si svuota. Solo Aldo ed io rimaniamo a fronteggiare un’altra marea, quella del solito femminile locale molto agguerrito che ci corteggia in modo sfrontato. Aldo si dilunga a parlare con Ezia, che chiamiamo “Jungla” per lo sguardo particolarmente selvatico, ed Ana detta “Momo”, quando si ferma la camionetta della polizia e le carica per portarle in centrale, ree di essere in compagnia di un “gal” (bianco). Succede di frequente e verranno rilasciate dopo pochi minuti. Restiamo in spiaggia fino a tardi per godere di un tramonto di fuoco e attendere l’apertura del Lido Dancing, un salone da ballo gestito in modo austero ma con un’acustica migliore del Giuba e ancor più del Terrazza. Unico neo, nel locale regna un buio pesto e si vede solo il bianco dei denti delle somale quando ridono.

Tornati a Mogadiscio, viviamo il consueto carosello di ragazze attraenti ed audaci che passeggiano per le vie del centro e con le quali è piacevole socializzare scherzando tranquilli al fresco della notte. Parlano un buffo italiano e “sparano” per ore racconti molto divertenti, facendo sempre attenzione a non essere visti dalla polizia. Apprezziamo la loro solare spontaneità col privilegio di avere tempo da dedicare loro. Girovaghiamo giorno e notte, fortunatamente senza mai avvertire o incontrare pericoli. Passare sotto il nostro balcone, posto al primo piano dell’hotel Darsn, a chiamare e fischiare per un saluto o fare due chiacchiere è diventato un tour di prassi per alcune fanciulle. Questa notte però il burbero Gurey, titolare dell’hotel, è di nuovo uscito in strada brandendo un bastone per sloggiare le ragazze che vengono a cercarci. Dopo l’ennesimo avvertimento Gurey non sente ragioni e ci obbliga a cambiare hotel colpevoli di disturbare la quiete e sconvolgere gli equilibri del suo hotel. Alcuni clienti sono visibilmente contenti che ce ne andiamo. Come dargli torto, in fondo ci sentiamo come in vacanza e noi siamo incontenibili. L’unica a dispiacersene è Deeka, la “badessa” tutto fare che considera Gurey un fanatico religioso.

Ci trasferiamo nel vicino hotel Arta non senza rimpianti poiché il Darsn è l’alloggio migliore nella categoria popolare. Qui però non abbiamo la finestra sulla strada e ci sentiamo “più protetti”. Ci accordiamo subito col guardiano, in tono scherzoso: “Non vogliamo donne attorno a questo hotel!”. Tuttavia, a differenza del Darsn, qui molte camere sono occupate da giovani donne. Le donne non sono più fuori ma dentro. Tutto da ridere!

Per compiacerci il guardiano chiede di essere chiamato “Garibaldi”. Si unisce al coro di coloro che osano criticare il regime: “Negli uffici governativi sono tutti dei magna-magna, hanno imparato dagli italiani che sono i maestri del magna-magna”. Ma sottolinea anche che gli italiani sono i migliori: “Coi sovietici non si poteva girare in libertà, per loro eravamo tutti spie”. E ribadisce con piglio: “Ai musulmani non piacciono i comunisti”. Ci tiene a raccontare un episodio che ha vissuto personalmente: “Alla partita di calcio Somalia contro Unione Sovietica la gente ha fischiato la squadra russa per mostrare il proprio disprezzo. Il giorno dopo allo stadio hanno messo 5 mila russi in borghese per intimorire i tifosi”. Approfittiamo della loquacità di Garibaldi per chiedergli del suo stipendio: “Il compenso, come quello delle ragazze in servizio a tempo pieno, varia da 90 a 180 scellini al mese (15-30 dollari)”. Domanda indiscreta ma utile quale misura di riferimento per capire meglio il valore della fatica in un Paese povero. È curioso sentire definire le governanti “boyesse”, ovvero il femminile di boy, in una fusione anglo-italiana perfetta.

Ci dicono che per il governo non è proibito ma sarebbe da evitare che studenti e lavoratori frequentino dei bianchi per il timore che i somali parlino troppo perché noti come chiacchieroni. Infatti, la cosa stupenda degli abitanti di Mogadiscio è la socialità, dovunque basta fare un cenno e la gente si ferma a raccontarti la propria vita come fossimo amici da secoli, così è anche con Ankelo, un musicista cattolico cresciuto nel deserto: “Nella boscaglia se sei musulmano tutti ti aiutano, se non lo sei provano a rubarti anche i vestiti. Per loro i cristiani si derubano o si uccidono perché sono cattivi e perversi”. Suona il bongo con un gruppo di italiani e dice che spesso lo chiamano “bastardo” perché è cattolico e sta coi bianchi: “Vedere musulmani e cristiani insieme per taluni è cosa blasfema”. Questa sera suona in discoteca a Gezira, la spiaggia poco a Sud della capitale, se ci andiamo presto entriamo gratuitamente. Arriviamo tardi e ci tocca pagare.

All’esterno del locale, sedute su un muretto e accarezzate dalla brezza marina, troviamo tre giovani “sciarmutte” (prostitute) conosciute al Terrazza, l’altro dancing in centro città, che si vantano a vicenda sulle strategie usate per truffare i clienti. La nostra presenza non le disturba, anzi ci tengono a spiegare bene per farci capire meglio. Cutiya racconta di avere appena fatto un “casino” con un marinaio che voleva darle solo 200 scellini: “Ho visto che era pieno di soldi e ho minacciato di andare alla polizia per spaventarlo”. Un’altra esalta il fatto di lavorare in tandem con un taxista, riferisce che l’ultima volta hanno portato un lavoratore occidentale nella giungla: “Abbiamo spento le luci e fatto la voce grosse e lui dalla paura ha sganciato 600 scellini”. Un bel po’ di denaro se paragonato allo stipendio di Garibaldi e delle donne di servizio. Storie squallide di estorsioni violente che però ci incuriosiscono, grati alle ragazze di esprimersi in modo disinibito, permettendoci di venire a conoscenza di fatti oscuri ai più. Sentire per cosa competono e su cosa basano la propria morale ed il proprio orgoglio è motivo per noi di interesse.

Decidiamo di farci una bibita tutti assieme nella baracchina distante una trentina di metri ma, appena giunti in strada, passa un furgoncino guidato da un poliziotto che frena di colpo, scende e spinge con violenza le tre ragazze sul furgone per portarle alla centrale, accusate di essere in compagnia di bianchi, anche se a noi non rivolge neppure uno sguardo. Ci salutano divertite per un arresto di prassi che non preoccupa più nessuno.

Al fermo posta di fronte all’hotel Giuba, ricevo una lettera di Valentina, la mia ragazza. Scrive di essere alle Seychelles dal 7 marzo e di aspettarci assieme all’amico Angelo, si trovano al Dolphin Court che è l’unico residence della capitale Victoria. A Mogadiscio mi sono “leggermente” distratto, si torna alla realtà degli affetti e del viaggio. Bene, è ora di cambiare aria, il visto scade a giorni e dobbiamo trovare il mezzo giusto per lasciare il Paese evitando l’aeroporto a causa del temuto controllo dopo la denuncia fatta da una ragazza, circa alcune foto che secondo lei sarebbero state scattate in luoghi proibiti.

Per prima cosa cerchiamo un passaggio verso Kisimaio, per raggiungere poi le Seychelles dal Kenya. È dal quartiere di Sinai che partono sia i camion che i Land Cruiser della Toyota diretti nel Sud del Paese. Ci prenotiamo in tutte le corse possibili ma purtroppo è iniziata la stagione del cosiddetto “Gu”, che porta pioggia da aprile a giugno, ed uno dopo l’altro vediamo i mezzi cancellare le partenze a causa del percorso inagibile. Proviamo anche col camion che porta pescicani secchi a Nairobi ma pure questo rinuncia. L’aereo per Kisimaio è al completo e in waiting list fino al 30 aprile, mentre il nostro visto scade il 26. Apprendiamo che durante questa stagione i mercanti di foglie di khat seguono la pista che fa un ampio giro verso Nord-Ovest fino al confine con l’Etiopia e mi segno con cura le tappe di questo importante percorso: Baidoa, Lugh, Dolo, Bulahawo, Mandera (Kenya), Wajir, Isiolo. Qui si arriva dopo 24 ore. Dopo vanno a Nanyuki e Nairobi per un totale di 1400 km percorsi in 26-30 ore. Chiediamo di aggregarci, vogliono 300 scellini, il prezzo è buono ma pure loro hanno tempi d’attesa troppo lunghi. Viene da noi in hotel il fratello di Hidan, dipendente dell’Alitalia, dice che sta aspettando il suo Land Cruiser da un momento all’altro per andare a Nairobi e ci dà un passaggio, ma poi sparisce nel nulla.

Giornata intensa e calda, vado a dormire sulla panchina in sasso accanto all’arco Umberto di Savoia accarezzato dal fresco dell’oceano, poi arriva un acquazzone che sfonda i tetti di alcune case e corro in hotel stanchissimo. Il mattino dopo decidiamo di provare ad uscire dal Paese via mare. Viaggiare a volte è faticoso, occorre inventarsi il presente giorno per giorno. Di buon’ora andiamo alla Shipping Line dal responsabile Ahmed Jamar, sempre cordiale e disposto ad ascoltarci. Appena entriamo in ufficio ci rimprovera: “Ieri mattina è arrivata la nave Victoria con un capitano italiano simpatico, ho pensato a voi, ma non vi siete fatti vivi. È ripartita subito questa mattina all’alba per Mombasa”. Ci dà però anche una buona notizia: “Questa sera arriva in porto la nave Alexa della Mediterranea Shipping con bandiera panamense e il capitano è italiano. Domani è venerdì, festa in Somalia, ma gli uffici sono ugualmente aperti dalle 9 alle 11, fate un salto a verificare”. Puntuali alle 9 Ahmed ci presenta il capitano che telefona all’armatore e concede subito il consenso, ma adesso il problema è un altro: devono scaricare 2700 tonnellate di merce, impiegano una settimana e noi non possiamo attendere così tanto.

Non ci resta che andare di corsa alla sede della Somali Air, al chilometro 4, e comprare il ticket Mogadiscio-Nairobi per domani alle 16. L’addetto all’ufficio informazioni ci consiglia di presentarci all’aeroporto con tre ore d’anticipo: “Senza la ‘carta di valuta’ la polizia deve fare delle indagini e rischiate di perdere il volo”. Come sempre in questi casi andiamo al consolato “per un saluto” alla dottoressa Sabrina Palesati che a nostra tutela, in caso di bisogno, scrive una lettera in cui spiega l’errore fatto alla dogana di Gibuti, essendo tale reato punibile con l’immediata carcerazione: “Sono molto severi a riguardo”. Un’oretta la dedico alla cancellazione dai taccuini di tutti i commenti compromettenti contro il governo, scarabocchiati talmente bene che neppure io riesco più a decifrarli.

Andiamo per un ultimo pranzo al ristorante Cappuccetto Nero, forse la migliore delle osterie di tutta l’Africa. Minestrone, bistecca ai ferri, melanzane, crême caramel, limoni, pane e coperto per 17 scellini (2,40 dollari). Salutiamo gli amici Bruno di Macerata, Sergio di Forlì, Giuseppe di Bologna, tutti residenti a Mogadiscio da una vita e diventati per noi un punto di riferimento importante per ogni genere di chiarimenti, sia pratici che su usi e costumi locali. Sentendo che andiamo a Nairobi sottolineano che quella città per tutti i Paesi confinanti con il Kenya è diventata un mito di modernità e benessere in cui tutti i somali aspirano ad andare. Interviene il barista somalo che con una smorfia di dissenso dice di averci abitato per anni e non ne ha dei bei ricordi: “Il quartiere in cui vanno a finire i somali si chiama Eastleigh, lì parlano tutti italiano. Per sopravvivere i più finiscono per fare traffici vari, dai passaporti falsi ad altri commerci illegali”. Al barista quel modo di vivere proprio non piace: “Nairobi è una città molto corrotta, piena di ladri, furti e rapine, con la polizia che ferma in continuazione con la scusa di controllare i documenti ma vuole solo fregarti dei soldi altrimenti sono problemi. Non amano i turisti e tanto meno i freak come voi”. Sono già stato in Kenya nel ‘72 e concordo in toto con la sua sintesi. In effetti, Nairobi ha un centro evolutosi in stile occidentale, ma è senza calore, mentre Mogadiscio è una città ancora viva e vera!

Conclude con un curioso avvertimento: “Fate attenzione al Rooghi-Rooghi, una sostanza che se ingerita perdi la volontà e finisci in loro potere”.

Un doveroso saluto anche ad Amina, Fortuna, Bretella e all’amico Mohamed, il giornalista del quotidiano Stella d’Ottobre, che ci intervista per un articolo sul modo di apprendere viaggiando dal titolo retorico: “Somalia-Italia, fratelli”.

Alle 14 siamo all’Aeroporto e, meraviglia, nessun controllo particolare, assolutamente niente: “Salam Aleikum”, “La pace sia con voi” … “Aleikum Salam”, “Su di voi la pace”, il funzionario timbra sul passaporto l’uscita dal Paese senza proferire. Incredibile! Nessun problema riguardo alle foto e neppure per la mancanza della carta valuta. Dire che siamo entrati via terra dalla dogana di Loyada e Gibuti non ha creato problemi, anzi sapevano già che non abbiamo la carta valuta e non hanno detto nulla, non ci hanno chiesto neppure la carta della banca. Tutto liscio! Le atroci paranoie messeci in testa da tanti si sono rivelate per fortuna infondate. Forse è ancora quel benedetto visto rilasciato dall’Ambasciata del Cairo a mettere tutti sull’attenti.

Oggi è il 22 aprile e dopo 28 intensi giorni lasciamo questo meraviglioso Paese. Quando si viaggia in assoluta libertà, senza l’assillo del tempo, è il viaggio stesso a scegliere per noi i luoghi degni di una sosta e le amicizie del momento. Sull’aereo decidiamo di sederci sulla parte destra per godere della costa dall’alto: la spiaggia di Merca, la zona verde di Giamama e la pista camionabile per il Kenya. Le hostess non sono somale ma keniote, con il naso schiacciato, Aldo dice “mattonato”, come se avessero preso un mattone in viso. Servono cibo all’inglese che non sa di niente. I popoli colonizzati dagli inglesi hanno spesso un’aria insulsa e già sentiamo nostalgia per la bella Somalia. Dopo Nairobi, Mombasa e Malindi proseguiamo per le Seychelles dove Valentina è ad attenderci per continuare il viaggio insieme.

Continua su Wall Street International Magazine