Viaggio al Lago Nasser – Da Aswan a Wadi Halfa
Notte di venerdì 23 febbraio. In ostello, brutto risveglio dell’amico Fabio che lancia acute urla nel cuore della notte perché circondato da topi che gli rosicchiano scarpe e zaino, svegliando tutti di soprassalto
Oggi si parte. Salutiamo gli amici bolognesi Fabio e Andrea che restano ad Aswan e ci rechiamo in stazione. Aldo ed io saliamo sul treno delle 10 e all’arrivo a Sad el Aalie facciamo due chilometri a piedi per raggiungere il posto di dogana egiziano ed il molo per Wadi Halfa che si trova sul lato est della megadiga. Si tratta di due grossi barconi in legno di due piani affiancati e legati assieme.
Normalmente sono tre, uno in mezzo col motore acceso e due trainati ai lati. Ogni barcone è una classe: a destra la prima, al centro la seconda e a sinistra la terza, ma oggi quello della prima classe è rotto e si viaggia solo con seconda e terza classe. Per chi arriva dal Sudan prima di scendere, su tutti i passeggeri viene spruzzato del forte DDT e per chi parte, prima di salire a bordo occorre attendere che i battelli siano regolarmente disinfettati contro la peste. “Ambientino salubre”. Qui la sporcizia regna sovrana, anche nelle soffocanti cabine dai materassi, lenzuola e panni lerci, come pure nelle latrine e dovunque. Tantissimi i passeggeri che caricano sacchi e mercanzie da portare nel poverissimo Sudan.
Lasciamo il molo alle 15.30 e dovremmo arrivare in Sudan domenica mattina, dopo due notti a bordo. Wadi Halfa, il nostro porto di destinazione, si trova nell’estrema parte meridionale del lago Nasser, un bacino idrico artificiale lungo 480 km e con una larghezza massima di 16 km. Nel biglietto è compreso il cibo e tè a volontà ma per averli occorre fare la consueta lunga fila e possedere piatto e bicchiere altrimenti non si mangia o beve. La nostra cabina di seconda classe si trova in coperta, al livello di galleggiamento, e misura appena 2×1.70 metri: sarebbe certamente più salubre dormire nel sacco a pelo all’aperto.
Sopra le nostre teste c’è l’affollatissima deck-class, tutti accalcati e accampati ed è difficile anche il solo muoversi da un punto all’altro del rustico natante. Nessuno si sposta, per potersi muovere sul barcone ci si arrampica esternamente da un piano all’altro. Da lì sopra gettano nel lago acqua sporca, brodaglie, rifiuti, sputacchi vari, con gli schizzi che spesso entrano nella nostra camera. Infatti, mentre stavamo preparando un piatto di sardine e cipolle qualcuno ha gettato degli avanzi di qualcosa e gli sprizzi dell’acqua del lago hanno centrato il piatto.
La “fame è brutta”, abbiamo mangiato ugualmente. In deck ci sono anche gruppetti di freak che si passano grossi joint e alcuni di loro sono parecchio stravolti. Stordirsi è piacevole ma qui privilegiamo il genere “scapigliati milanesi”, animati da uno spirito di ribellione più lucido e presente. Guardiamo il tramonto con la sigaretta in bocca: il fumo che inquina e il sole che purifica, non per volare via ma per restare sulla Terra. Il tramonto dal lago è spettacolare. Appena il sole si inabissa dietro le rocce del deserto, il cielo si riempie di cento gradazioni di colori che riflessi sulle acque piatte e tranquille del lago sembrano in uno specchio.
A mezzanotte staccano la corrente elettrica nelle cabine e si resta al buio, illuminati da una via Lattea spettacolare, da sembrare un tetto con luci al neon. Allora i pensieri prendono il largo e l’ansia, indispensabile per un continuo rinnovamento, si placa. Aldo sintetizza il momento: “Esiste sempre un modo migliore di fare le cose e chi si ferma non si arresta ma torna indietro”. Un po’ come remare contro corrente, se manchi un colpo di pagaia dopo ne devi dare almeno tre per recuperare, dipende sempre dalla corrente.
Al piano superiore i sudanesi, molti dei quali coi volti segnati da sfregi tribali, danzano al suono di musiche e canti provenienti da una radio a tutto volume. Lo fanno per tutta la notte ma non danno fastidio anzi, conciliano il sonno. Sono melodie più primitive e autentiche di quelle egiziane e rivelano un oceano di “povertà invidiabili”. Stiamo andando nel paese più povero dell’Africa, quindi uno dei più poveri al mondo.
Notte fredda, tipica del deserto. Zanzare poche ma “precise”. Zanzare o sporcizia che sia, cominciamo a grattarci dal prurito.
La mattina di sabato 24 febbraio, siamo in navigazione con gabbiani e falchi che seguono la scia dei barconi a poppa. L’acqua dolce per lavarsi finisce in fretta quindi bisogna correre ai lavandini per primi se no poi rimane solo l’acqua del lago. Buttano il secchio legato da una corda nel lago e la stessa acqua la usano sia per lavarsi che per bere. Se ci viene da andare in bagno, basta dare un occhiata alle latrine e lo stimolo passa di colpo. Appena la giornata si rianima iniziano a piovere rifiuti davanti alla nostra camera tuttavia, non ci crea disagio o lamentele in quanto viviamo ogni esperienza con estremo interesse. Questo lo percepiscono anche i nativi che, in più occasioni, cercano di socializzare con noi. Uno studente universitario sudanese chiede di entrare nella nostra camera e si presenta per invitarci in qualità di ospiti a casa sua una volta giunti a Khartoum. Si chiama Mohamed, il nome più diffuso nel mondo musulmano.
Parla un buon inglese e approfittiamo della sua disponibilità per cambiare moneta egiziana con quella sudanese e soprattutto per raccogliere più informazioni possibili: “L’Ordinary Train diretto alla capitale è quello che aspetta l’arrivo del nostro battello ed ha tre classi. Lo Special Train invece costa di più e c’è al lunedì e al mercoledì. Parte alle 17 e arriva a Khartoum la mezzanotte del giorno dopo. Continuando per Kassala il treno impiega un altro giorno ed una notte”. Spiega che in entrambe le città troveremo tanti rifugiati eritrei, circa un milione giunti in Sudan a causa della guerra con l’Etiopia.
Domandiamo il percorso da fare per entrare in Eritrea: “A Kassala in molti parlano italiano, chiedete il permesso al Secret Camp per raggiungere il confine eritreo, distante appena due ore di lorry. Si ottiene facilmente!”. Parlando d’altro, lentamente emerge una visione politica che probabilmente riflette il pensiero dominante della gente del Sudan. Sostiene che il governo del Sudan è democratico perché ispirato dalla religione: “L’Occidente si autodistrugge perché è invece ispirato dal denaro. Chi si rende schiavo del denaro sarà sempre infelice, dice Maometto.
Egiziani e sauditi non sono veri musulmani perché amano troppo il denaro”. Mohamed poi passa ad esprimere il suo concetto di libertà: “Non credo, come dite voi in Occidente, che le nostre donne vogliano essere diverse da quello che sono da secoli e gli uomini non ne hanno nessuna colpa”. Tiene a precisare: “Vedete, in Egitto e altrove si sostiene che le occidentali siano tutte prostitute, per me invece sono solo donne infelici”. Nel salutarci sbatte la testa contro la porta della camera troppo bassa. Non credo che accetteremo il suo invito a Khartoum.
Ora è il turno della cicciottella ed estroversa Judith ad entrare nella nostra minuscola cameretta per chiedere di custodirgli i bagagli. Americana di Portland, viaggia con due canadesi e sono diretti in Kenya. Aveva pagato per una camera grande ma una signora con cinque figli ha preso possesso del secondo letto e per la confusione “ed il puzzo” ha preferito dormire fuori in deck-class. Racconta che nel 1975 era a Saigon durante l’evacuazione degli americani. Io ci ero nel ’69 e passiamo una buona mezzora a parlare di quella realtà, durante la quale rivela di essere giunta in Vietnam col compito di intrattenere le truppe.
Gli argomenti cadono sui viaggi e sul contesto africano in generale: “Africa, very strange continent. In molti paesi l’odio per i bianchi viene manifestato apertamente e a volte duramente. A parte la loro fisicità e natura rozza, gli africani sono in gran parte degli introversi pericolosi, dei musoni violenti sempre incazzati con tutti. Lo Zambia aiuta i guerriglieri per la liberazione della Rhodesia e lì si rischia di essere malmenati solo per essere bianchi”.
Sentendo che intendiamo andare nell’odiato Sudafrica, ci consiglia: “Chiedete il visto del Sudafrica in Malawi, lì lo timbrano su di un foglietto di carta, non sul passaporto, per continuare il viaggio nel resto dell’Africa senza problemi”. Per il Sudan, sa bene che è in atto una sorta di guerra civile tra il sud cristiano e il nord musulmano: “Al nord si parla arabo, mentre il sud è abitato da oltre trecento tribù negroidi divise e nemiche che parlano differenti dialetti e non sarà facile unirle in un unico popolo”. Da Port Sudan allo Yemen pare ci sia una nave che attraversa il Mar Rosso ma ognuno dice cose diverse e nessuno lo sa con certezza.
Sono le 21 quando smettiamo tutti di chiacchierare, attratti dalle luci del colosso di Abu Simbel che si vede in lontananza. Due ore dopo gli navighiamo lentamente davanti, rapiti ed estasiati dalla sublime visione delle quattro statue alte venti metri e scolpite nella roccia. La prima a sinistra è la meglio conservata, quella più integra. Guardano verso est, per assorbire fin dall’alba l’energia del dio sole. Leggiamo che il sito archeologico è stato voluto da Ramses II nel XIII secolo a.C. per intimidire i Nubiani.
Fu scoperto nel 1813 dallo svizzero Burkhardt e violato per la prima volta nel 1817 dall’archeologo italiano Giovanni Battista Belzoni. Quando nel 1960 il presidente egiziano Nasser decise l’inizio dei lavori per la costruzione della grande diga di Aswan, per evitare che venisse sommerso, si stabilì di smontare e traslocare il prezioso complesso 65 m più in alto e 300 m più indietro rispetto al bacino venutosi a creare. La ricostruzione terminò nel 1968 con l’impiego di oltre duemila uomini guidati da un gruppo di esperti lavatori di marmo italiano messi insieme dall’azienda milanese Impregilo.
Notte più ventilata e meno fredda della precedente. Siamo nella regione montuosa e desertica della storica Nubia, dal clima fortemente continentale, con ampie escursioni termiche tra il giorno e la notte. Non abbiamo chiuso occhio, anche a causa della quantità eccessiva di tè che abbiamo bevuto a stomaco vuoto essendo il cibo poco invitante. Scontato in questo contesto, sentirsi dei privilegiati ad essere nati in Emilia, nella regione dove si mangia “molto e meglio al mondo”.
Alle 6,30 di domenica 25 febbraio attracchiamo al porticciolo di Wadi Halfa in Sudan. Prima di scendere a terra i militari spruzzano del DDT sui passeggeri e disinfettano tutto. Le operazioni di dogana si svolgono sui barconi, noi finiamo alle 9,30 mentre gli altri freak in deck hanno atteso fino alle 15,30. Nessun controllo. Wadi Halfa ci appare come un paese anonimo, formato da case in terra sparse nel deserto sulla riva destra del Nilo. La Wadi Halfa originale esiste ancora ma è sommersa: il suo porto fluviale e la stazione ferroviaria furono ricoperti dalle acque e fu necessario creare una nuova città per ricostruirli. Anche l’intera comunità nubiana che abitava in queste zone, circa 800mila persone, fu trasferita suo malgrado.
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